mercoledì 30 dicembre 2009

A margine della rivolta iraniana

L’evolversi della situazione iraniana mi offre lo spunto per un’interessante considerazione d’ambito religioso-sociale.

Pochi hanno notato un fatto. I manifestanti che riempiono le strade di Teheran e delle altre città iraniane per protestare contro il potere di Ahmadinejad non gridano solo slogan politici. Non urlano cioè solo «Morte al dittatore!». Tra le loro parole d’ordine ci sono anche invocazioni alla giustizia tratte direttamente dal Corano. Chi scende in piazza si fa forte del testo sacro dell’Islam per opporsi a una pratica di governo oppressiva e palesemente contraria al volere di Dio, che ordina all’uomo il bene, non il male. Gli ayatollah, sorretti dal popolo, hanno trent’anni fa conquistato il potere politico in Iran. Gli ayatollah, sconfessati dal popolo, rischiano oggi di perdere quello stesso potere. Il discorso religioso rimane in primo piano e protagonista del discorso religioso rimane il popolo.

Tutto ciò deriva da una caratteristica precisa della religione islamica. Nell’Islam, ogni fedele è sacerdote a se stesso. Non c’è un clero - anche se gli sciiti fanno parzialmente eccezione -, non c’è una gerarchia verticistica e centralizzata, non c’è un papa che detti la linea ex cathedra. Il buon musulmano legge il Corano e ne applica gli insegnamenti, interpretandone la parola per la sua stessa vita. Da qui alla strada il passo è breve: ecco cosa permette al musulmano di Teheran di contestare legittimamente la guida politico-religiosa del paese.

Sappiamo che la tradizione cattolica è molto diversa. I nostri pastori hanno gestito in proprio e gelosamente custodito per quasi duemila anni il ministero della Parola di Dio. E i tentativi più recenti - di stampo conciliare - di allargare questo ministero e renderlo universale non hanno attecchito. O non hanno ancora attecchito a sufficienza. I cattolici non leggono a casa loro i Vangeli e aspettano passivamente che sia il sacerdote, la domenica, in chiesa, a spiegargli cosa Gesù desidera dai suoi amici. Sulle conseguenze politiche e culturali di questo fatto si sono spesi fiumi d’inchiostro. Io ne metto in evidenza una, minima e vicina a noi. I cattolici lombardi non scendono in strada per contestare l’uso distorto che dell’insegnamento cristiano fa la Lega. E tanto meno per opporsi al matrimonio d’interesse tra la Lega stessa e i politici d’estrazione dichiaratamente confessionale che guidano oggi la regione. A quanto pare, se esercitano un discernimento personale sul Vangelo, lo esercitano privatamente. E si estraniano o rifiutano di esercitarlo su un piano pubblico e collettivo. Apparendo così del tutto incapaci di reclamare apertamente una retta etica di governo cristiana.

Non condivido la confusione tra politica e religione, tipica dell’Islam e perdurante oggi a millecinquecento anni dalla missione di Maometto. Ma non tutto ciò che viene da quella fede è cattivo.

domenica 27 dicembre 2009

Santità e storia: una distinzione per Pio XII beato

Papa Benedetto XVI firma i decreti sulle virtù eroiche di Giovanni Paolo II e Pio XII e così permette che si passi alla fase successiva del processo di beatificazione per entrambi. Per quanto riguarda il suo immediato predecessore la cosa non solleva alcun dubbio. La commozione popolare che ha accompagnato i funerali del papa polacco è rimasta nella memoria di tutti e il consenso, per esempio, sull'importanza del suo impegno per la pace è unanime: fece il possibile per una transizione pacifica alla democrazia nell'Europa comunista, si oppose apertamente alla guerra contro l'Iraq (e per questo fu deriso), dialogò con l'Islam e pregò pubblicamente con rappresentanti di questa religione, definì gli ebrei "fratelli maggiori"...

La sempre più probabile beatificazione di Pio XII solleva, invece, riserve importanti. Il papa della Seconda guerra mondiale ebbe certamente meriti pastorali e dovette affrontare uno dei peggiori momenti della storia dell'Europa e del mondo. Le responsabilità che dovette assumersi furono enormi e per non commettere errori di valutazione avrebbe dovuto avere una capacità di giudizio ben più che eroica: direi piuttosto sovrumana.
E infatti, accanto al silenzio di grandi uomini politici inglesi e americani sull'olocausto, per molti pare quasi accertata un'assenza o una colpevole debolezza di intervento di Pio XII contro le persecuzioni e lo sterminio degli ebrei. Dico "quasi" perché il Vaticano pone ancora oggi - si dice "per motivi tecnici" - il divieto a consultare gli archivi che riguardano il periodo più contestato.

La questione è complessa e il giudizio, come è giusto quando si vuole compiere un'analisi storica onesta, deve essere molto prudente e il più possibile fondato.
Ma ad attirare l'attenzione in questi giorni non è la discussione intorno a Pio XII, ancora aperta, ma la distinzione messa in campo dal portavoce vaticano per giustificare l'atto di Benedetto XVI: la proclamazione delle virtù cristiane eroiche di Pio XII non significa che si affermi la totale correttezza di tutti gli atti storici di quel papa né che si concluda la ricerca sui loro effetti.

Qui sorge un dubbio. Il processo di beatificazione di un membro della Chiesa si basa su tre elementi:
1. la fama di santità della persona presso il popolo di Dio (quella, per esempio, sostenuta in modo evidente dalla gente in piazza san Pietro il giorno dei funerali di Giovanni Paolo II);
2. la testimonianza che lo stesso candidato offre di se stesso nel momento in cui un'accurata ricostruzione storica - con lettura di ogni possibile testo, documento, pubblicazione e con la raccolta di testimonianze dirette - permette di scrivere la sua biografia; in questa fase, parole e opere del personaggio parlano per lui;
3. il cosiddetto "voto di Dio", cioè un miracolo ottenuto da un credente invocando proprio il nome dell'uomo o della donna cui si attribuisce la facoltà di intercedere presso Dio per ottenere grazie straordinarie.

Il dubbio riguarda il secondo elemento. Se per stessa ammissione del Vaticano la ricerca storica sull'operato di Pio XII - un credente, ma in particolare un papa - è ancora aperta, com'è possibile, nel frattempo, dichiarare l'eroicità delle sue virtù? Infatti, tra quelle di un papa, e non di un semplice credente, ci sarà anche quella di guidare santamente il suo gregge e di testimoniare il vangelo di fronte al mondo con coerenza, coraggio, saggezza e... prudenza.
Ora: com'è possibile, nei limiti del giudizio umano, stabilire l'eroicità e la straordinarietà delle virtù di chiunque prima di aver completato l'esame di tutte le testimonianze disponibili?

Il processo di beatificazione non serve a esaltare a ogni costo il ruolo della Chiesa e la giustezza della sua predicazione: a questo concorre la fede quotidiana di milioni di fedeli che, come possono, danno buona testimonianza della loro fede, speranza e carità.
Un processo di beatificazione serve a mostrare che, grazie alla fede, è stato possibile vivere una vita che aveva di mira non solo il raggiungimento del paradiso, ma anche la trasformazione del mondo in un luogo più umano, più giusto, più vivibile. Per questo il processo di beatificazione è una procedura dove la ricostruzione storica ha un ruolo decisivo. Altrimenti varrebbe, nel caso, per Pio XII, quanto vale per ogni credente: ci "limiteremmo" ad affidarlo alla misericordia di Dio per gli errori che potrebbe aver commesso, anche i più gravi.

Forse la tentazione di difendere la Chiesa da ogni dubbio storico sta pesando sulla serenità del giudizio storico? Per fugare questo triste sospetto, bisognerebbe, credo, proclamare l'eroicità del personaggio solo dopo aver fatto il possibile per sostenerla fino in fondo.
Da cristiano ho la massima misericordia per le debolezze umane, anche per quelle di un papa in mezzo a una guerra (compito terribile). Ma da cristiano e da uomo dotato di intelligenza non avrei nessuna comprensione per un tentativo di apologetica così mal combinato.


martedì 22 dicembre 2009

Auguri di buon Natale

25 dicembre, Natale: un'oasi nel bel mezzo della stagione più attiva dell'anno. Lavoro, scuola, affari si interrompono nel corso di una normale settimana. Segue il 26, giorno di santo Stefano, e quest'anno, il 27, la domenica. Come sempre, molti ne approfitteranno per sfruttare qualche giorno di ferie arretrato. Altri, in tempo di crisi, saranno obbligati a farlo dalle aziende che chiudono in attesa di ordini.
E così il giorno di Natale diventa "le feste di Natale", o più semplicemente "le feste". E tutti ci diciamo, gentilmente, "buone feste".

Ma io, per come lo sento, voglio fare proprio un augurio di buon Natale.
In due parti.
In primo luogo auguro a tutti di riscoprire, almeno in una brevissima riflessione, il senso del Natale cristiano. Non per onorare una nobile e vecchia tradizione o per difendere in qualche modo le nostre radici. Il Natale cristiano merita considerazione perché è una idea forte, curiosa, provocante.
Il mito cristiano racconta che Dio, l'onnipotente, a un certo punto ha voluto stare in mezzo agli uomini (e questa è una cosa) come un uomo (e questa è una seconda cosa). Dunque per i cristiani il destino dell'uomo e il destino di Dio si intrecciano e non si lasciano distinguere più. Il successo dell'uomo è il successo di Dio e viceversa. E tutto ciò che si può conoscere di lui dovrebbe diventare visibile in un uomo e, attraverso questo, in tutti gli uomini.
Un'idea interessante, no?

Il secondo augurio deriva proprio da questa idea. Auguro a tutti, per l'anno prossimo, di tornare a farsi domande religiose. Perché sono domande di uomini vivi. La religione riguarda la vita, per questo è triste quando qualcuno insegna che essa è l'impegno per cui bisogna morire (motivo per cui milioni di persone la evitano e sensatamente la detestano). Figuriamoci quando si afferma che sarebbe la cosa per cui bisogna uccidere!

La domanda religiosa riguarda la ricerca della vita: ci si interroga sul suo senso, sulle sue prospettive, su ciò che l'arricchisce e le dà gusto, su ciò che la consola, la rafforza e la difende. Ci si interroga anche a proposito di ciò che la inquieta. C'è una domanda religiosa nella nascita, nell'innamoramento, nell'arte, nella malattia, nel dolore, nell'amore, nella giustizia e nella lotta contro il male. C'è una domanda religiosa anche nel morire, e forse anche nella morte. Senza domanda religiosa - una ricerca che vuole andare a fondo di ogni cosa - finiamo per prendere ogni aspetto dell'esistenza come se tutto avesse la stessa importanza e lo stesso sapore: una condizione davvero deprimente. La ricerca religiosa cerca invece di stabilire delle gerarchie tra le cose di cui abbiamo esperienza e conoscenza e così ce ne rivela in pieno il gusto e il valore.

Nel vangelo di Giovanni si attribuiscono a Gesù queste parole: "Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza".
Auguro a tutti molta vita. Cos'altro dovrei fare a Natale?

sabato 19 dicembre 2009

Il piccolo Thomas e la Festa delle Luci

Alla porta di un condominio vicino al mio è comparso un paio di giorni fa un cartello festoso. Annuncia la nascita del piccolo Thomas. Il piccolo Thomas ha genitori italianissimi, che hanno scelto per lui un nome inglese. Certo è un nome cristiano, ma so di sicuro che questo pensiero non ha attraversato le menti dei due genitori. Molto di più hanno contato la loro esterofilia e l’esoticità del nome stesso.

Questo fatto minimo mi riporta alla mente il maestro di Cremona che ha deciso di sostituire la celebrazione del Natale con quella di una più generica - e, secondo lui, accogliente - Festa delle Luci. Di ieri è la notizia che l’insegnante ha ottenuto il permesso definitivo del suo dirigente scolastico: la Festa delle Luci a Cremona effettivamente si farà. Di conseguenza molti, sulla stampa e nel mondo politico, hanno iscritto il maestro nel libro nero dei responsabili dell’inarrestabile annacquamento delle tradizioni nazionali. E segnatamente, delle nostre tradizioni cristiane.

Io non sto dalla parte di chi prevede la diluizione, il declino e addirittura la perdita della nostra identità. Sto dalla parte di chi ritiene la contaminazione culturale inevitabile e creativa. Quel che mi interessa segnalare è però altro: a mio parere, l’episodio di Cremona non è causa ma effetto.

È la nascita negli ultimi venticinque anni di tanti piccoli Thomas italiani - e correlative Jessica e Samantha - ad aver generato l’atmosfera che rende proponibile e praticabile una Festa delle Luci. Siamo noi italiani a desiderare, sperimentare, abbracciare per primi quel che viene da fuori. Ritenendolo spesso migliore di ciò che già abbiamo a disposizione. Vedi la Notte di Halloween, la cui celebrazione si diffonde in Italia e nell’intero Occidente a macchia d’olio. Il fenomeno parte da lontano ed ha poco a che vedere - come invece molti sostengono - con l’aumento della popolazione straniera in Italia.

Se fossi nei panni degli avversari del maestro cremonese cambierei strategia. Prendersela con le tradizioni “altre” è dannoso, perché genera rancore, e inutile, perché il divieto non elimina il desiderio o il bisogno di nuovo. Lasciamo che tutti festeggino quel che vogliono. E lavoriamo sulla nostra gente perché riscopra il significato e il sapore delle tradizioni indigene più antiche e belle. Lo dico da sostenitore della contaminazione culturale. Solo partendo da ciò che è già nostro possiamo assorbire ciò che è diverso senza farcene sopraffare. E solo per questa strada il piccolo Thomas diverrà un individuo completo, sicuro della propria identità, capace di convivere con la globalizzazione.

Quando nascondere vuol dire svelare

Mad Men, terza serie, prima puntata. Il capo degli account viene licenziato. Torna nel suo ufficio, chiude la porta e comincia a urlare. È inferocito. Inveisce e rovescia la scrivania. Non vediamo niente, ma ascoltiamo tutto dal corridoio, insieme ad altri due personaggi. Sono parole e gesti insoliti per una serie che fa della misura e del glam un criterio imprescindibile. L’autore ha inserito in sceneggiatura lo scatto d’ira del manager licenziato, ma ha deciso di non mostrarcelo. Proprio sapendo che la violenza esplicita non ha niente a che vedere con Mad Men. E in questo modo dà ancora più forza alla scena.

Paranoid Park, film del 2007 per la regia di Gus Van Sant. Il protagonista adolescente decide di lasciare la sua ragazza: lo annoia, non ci si trova bene. La affronta e le dice che è finita. Lei reagisce male: strepita e impreca, insultandolo. Noi vediamo tutto questo, ma non lo sentiamo. La macchina da presa rimane puntata sul volto della ragazza, mostrandone ogni espressione. Dalla gioia per l’incontro allo stupore per quel che le viene detto. Dall’incredulità alla rabbia. È il suo volto a parlare, perché la sua voce scompare. La musica è il sonoro della scena. Van Sant ha deciso che più di qualsiasi parola valgono un lampo negli occhi e una piega della labbra.

Due scelte di stile differenti ma univoche: l’autore gioca con gli elementi della rappresentazione, sottraendone uno allo spettatore. Nel primo caso lo sguardo, nel secondo l'udito.
Due scelte convergenti verso un solo obbiettivo: esaltare l’azione del personaggio e il contenuto della sceneggiatura.
Due scelte di scrittura precise e consapevoli: quando nascondere vuol dire svelare.

lunedì 14 dicembre 2009

Rispettare insieme i tori e la tradizione

Tra le diverse cose che mi appassionano c'è l'opera lirica. Pur vivendo nei pressi di Milano, non posso andare spesso, come vorrei, alla Scala, per motivi di costi e di tempo. Ma appena sono libero, la sera, a volte mi godo in DVD - ne ho una bella collezione - un atto della Traviata di Verdi, di Così fan tutte di Mozart, di Der Rosenkavalier di Strauss, del Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi e così via.
Di conseguenza, appena ho saputo che un canale televisivo satellitare permetteva di seguire in diretta la prima di quest'anno - la Carmen di Bizet - mi sono organizzato per registrarla e me la sono vista il giorno dopo.

Lo spettacolo mi è piaciuto.
Bene gli interpreti - solo un po' emozionata, al primo apparire sulla scena, la giovane Carmen -; ottimi come sempre l'orchestra e il coro; non male, a mio umile giudizio, e questo contro il parere espresso a fischi da parte del pubblico in teatro, la regia di una giovane italiana, anche lei esordiente: affascinante la scena dell'uscita delle sigaraie dalla fabbrica, evocativo il canto di Michaela, che spera di sposare Don José, quando appare completamente avvolta in un ampio velo bianco che assomiglia a una rete che la imprigiona...

Un dubbio, però, a proposito di regia mi è venuto. E mi è venuto prima di ascoltare - comunque stupito - i fischi di parte del pubblico. Un particolare, se volete, che mi ha disturbato. Una stonatura.

Si tratta di questo. In una scena del secondo atto compare il torero Escamillo, l'uomo di cui Carmen si innamora e che vorrebbe sostituire, come amante, al geloso Don José.
Com'è tradizione e come tutti si attendono da questo personaggio, Escamillo canta orgoglioso il suo eroismo di torero imbattuto. Nella prima della Scala lo fa camminando avanti indietro su una tavola imbandita: fiero e sprezzante.
Ed ecco la stonatura. La regista, pensando, credo, di fare cosa corretta secondo il nostro gusto attuale a proposito di certe cose, fa dispiegare, dietro il tronfio torero che sta cantando, due grandissime gigantografie. Entrambe rappresentano il muso insanguinato di un povero toro appena abbattuto in una corrida dei giorni nostri. La vittima, ancora calda di vita e, ripeto, lorda di sangue acceso, fissa il pubblico con occhioni innocenti.
Insomma: nel bel mezzo della popolarissima Carmen, la regista ha voluto lanciare un appello accorato e fortissimo... contro la barbara tradizione della corrida.

Ora, che c'entra tutto questo con Bizet? Che c'entra con lo spirito della Carmen? Ma soprattutto: abbiamo davvero così poca fiducia nel pubblico da temere che la voce fiera del torero voluto dal grande musicista francese possa far venir voglia alla gente di Milano di uscire dal teatro e correre ad ammazzare o almeno a veder ammazzare un toro innocente?

Sì, per me è stata una nota stonata. Quell'irrompere del politicamente corretto - che va benissimo: io in difesa della corrida ho pochi argomenti da spendere - in uno spettacolo che ha in sé la propria giustificazione estetica mi è sembrata una vera barbarie. Una colossale sciocchezza.
E' stato come rappresentare un sacrificio umano in un film sugli Aztechi e metterci un sottotitolo lampeggiante che dice: "Attenzione! Queste cose non si fanno!". E' stato come rappresentare la crocifissione di Gesù, sempre in un film, con sottotitolo: "Attenzione! Non ce l'abbiamo coi romani, né con gli ebrei".

Devo davvero spiegare perché quelle foto di tori ammazzati mi sono sembrate fuori luogo? 
C'è qualcun altro a cui sono sembrate il segno di una cultura, la nostra, che non sa interpretare il passato per quello che è e nello stesso tempo mantenersi serenamente convinta delle sue idee e della propria sensibilità?


sabato 5 dicembre 2009

I buoni motivi per cui lascio il PD

Dopo un’esperienza molto intensa durata quasi un biennio, lascio il Circolo di Saronno del Partito Democratico.

Il motivo, in estrema sintesi, è questo. Il discorso del Lingotto, pronunciato da Veltroni alla nascita del PD, ha ormai più di due anni. A quel discorso non sono seguiti i fatti. Del «partito nuovo» non c’è traccia. Questo è un partito uguale agli altri. E il tempo in cui avremmo potuto farne qualcosa di veramente nuovo è passato. In poche parole, abbiamo perso il treno. Ecco alcuni esempi di ciò che intendo.

Il governatore della Puglia azzoppato dalle inchieste giudiziarie sui suoi più stretti collaboratori. Il governatore del Lazio costretto alle dimissioni per aver mentito sulle sue frequentazioni sessuali private. Il governatore della Campania letteralmente affogato nell’immondezza. E molte indagini in corso a carico degli amministratori locali pd per reati commessi nel pieno delle loro funzioni. Le parole pronunciate a questo riguardo da Bersani neoeletto durante l’Assemblea Nazionale del 7 novembre mi sono sembrate estremamente deboli. La «questione morale» investe il PD come ogni altro partito e non si fa abbastanza per risolverla. Non c’è traccia del rigore e della tensione civili promessi quando il partito nacque.

Rutelli, fondatore della Margherita, ha lasciato il PD. Insieme a lui, altre personalità di centro. Non molte, per la verità. Ma tra esse c’è qualcuno che pensa e ha la mia stima, come Cacciari, e qualcun altro che ha saputo dimostrare concretamente grandi capacità politiche, come Dellai. Costoro si posizioneranno tra PD e UDC e cercheranno in ogni modo di guadagnare spazio alle loro idee, spingendo inevitabilmente i democratici a sinistra. Il PD doveva essere il partito del centrosinistra, senza trattino, ma nella migliore delle ipotesi diverrà il maggiore azionista del centro-sinistra, col trattino, impersonandone appunto l’anima di sinistra. Anche in questo caso siamo lontanissimi dal progetto lanciato al Lingotto da Veltroni. Mancano la sostanza e ormai persino l’aspirazione a incarnare quel riformismo progressista che in Italia non ha mai avuto grande seguito e che doveva costituire il cuore maturo del Partito Democratico.

Non mi piacciono l’assoluta mancanza di carisma dei leader, la presenza a capo del partito delle solite vecchie facce ex comuniste o ex democristiane e l’incertezza della linea politica. Mi fa specie che Fini, oppositore di Berlusconi, occupi il centro della scena politica e noi, oppositori di Berlusconi, ci troviamo perennemente ai margini di quella scena. Mi dà fastidio che a Fini si attribuisca un progetto di destra moderna ed europea, mentre il PD, del suo progetto, non riesce a comunicare l’essenza. Mi delude la perenne conflittualità interna. In queste ore un pezzo del PD sfila a Roma con Di Pietro, un altro pezzo segue, magari non convinto, la regola bersaniana. Non mi colpisce la divergenza di vedute, quanto l’uso come arma di questa divergenza. L’intervista rilasciata da Veltroni al Corriere della Sera un paio di settimane fa non lascia presagire in proposito niente di nuovo: preannunciava il suo ritorno in grande stile al partito e comunicava, tra le righe, la ripresa della guerra per bande democratica. Molto di tutto ciò deriva, a mio modestissimo parere, da un difetto profondo d’identità. Il PD non sa ancora cosa è e cosa vuole. Sembra banale dirlo, ma non se ne è discusso abbastanza. Manca la visione del mondo. Mancano due o tre parole d’ordine semplici, chiare e condivise. E di conseguenza manca la cognizione dei valori, delle parti sociali e degli interessi che si desidera rappresentare. La Costituzione è diventata un amuleto da difendere a ogni costo. Per il resto, molta nebbia e poca, pochissima chiarezza. Nessuno può dire a chi appartiene oggi il Partito Democratico.

Come dicevano i latini e come dice Snoopy: Nemo ad impossibilia tenetur. Non c'è alcun motivo per perseverare nella caccia a un obbiettivo irraggiungibile. Molto più sensato è misurare le proprie forze e lavorare su un obbiettivo realistico. Il mio terreno di battaglia è l'editoria. E ai libri torno.

mercoledì 25 novembre 2009

Forse Dio non è all'origine di tutto, ma è certamente alla fine: e siamo noi

La frase che dà il titolo a questo intervento l'ho letta molti anni fa, in treno. A quel tempo mi ero impegnato a leggere qualche testo di divulgazione scientifica, scontento com'ero della mia ignoranza in questo campo. Ne valeva la pena, infatti: la scienza rende onore all'uomo, al mondo che cerca di conoscere e, per chi crede, a Dio.
L'autore del libro, di cui colpevolmente non ricordo il nome, era uno scienziato impegnato nella ricerca sull'evoluzione della vita, lungo la traccia inaugurata da Darwin, di cui ricorre il bicentenario della nascita.
E proprio per questa occasione mi è stato chiesto recentemente di tenere una conferenza su "Darwin e la creazione" in una parrocchia del bergamasco, cosa che ho fatto pochi giorni fa.
In una chiesa piena di gente (consolante, visto il tema) ho illustrato per quasi due ore, senza che si udisse un solo colpo di tosse, la teoria dell'evoluzione, con proiezione di immagini e di semplici riassunti.
E alla fine eccola lì, sulla mia bocca, la frase che in questi anni non ho mai dimenticato.

Ai tempi di Darwin lo scienziato era un avventuriero. Partiva come lui per lunghi viaggi e osservava la natura per formulare ipotesi su di essa e cercare di spiegarla.
Oggi quella stagione della scienza è un po' superata. La natura si studia soprattutto in laboratorio. E non la si studia solo per conoscerla, ma per manipolarla.
La tecnica ha preso il sopravvento sulla scienza.

La natura, del resto, non esiste più. Anche la foresta amazzonica è un'immensa riserva naturale, di cui stiamo decidendo cosa fare. E se ci diciamo che dobbiamo proteggerla è solo perché siamo consapevoli di averne bisogno.
Il mondo non ci interessa come interessava Darwin. Siamo già presi nel progettare come costruirne uno nuovo, sulla Luna o su Marte.
Viviamo nell'artificialità e andiamo nella natura in vacanza, portandoci dietro la tecnologia satellitare o, nei casi più "eroici", rinunciando temporaneamente alla civiltà per sentirci vivi. Ma sono parentesi: belle e tonificanti, ma parentesi.

Dio potrebbe non essere all'origine delle cose. Ma certamente c'è un dio al termine dell'evoluzione. Siamo noi. Con la tecnologia, che ha usato e usa la natura per distruggerla e rimodellarla, possiamo creare nuovi pianeti abitabili. Possiamo creare l'uomo in laboratorio.
Dio ha davvero finito il suo compito. Tocca a noi.

E come reagiscono i fedeli del paese del bergamasco? Non li ho rassicurati. Ho detto loro, da credente, che mai noi e Dio ci siamo guardati faccia a faccia come oggi. Mai abbiamo avuto tanto bisogno di lui, che una natura, bella e inquietante, aperta al mistero, l'ha creata e infatti ci precede.
Saremo migliori di lui?
O non è forse il momento di una nuova alleanza proprio con il Creatore che dà la vita?

domenica 15 novembre 2009

Ogni peccato, ogni rimpianto

Tutti i peccati - cioè ogni mancanza d'amore e ogni offesa a un altro essere vivente -  hanno un'unica radice: l'insoddisfazione per quello che siamo. Per questo motivo il peccato è "mortale". In un senso per cui lo si direbbe manifestazione di un istinto suicida, autolesionista, più che punito con la morte. Chi commette il male, insomma, fa pagare agli altri la propria profonda, radicata insoddisfazione. Gente soddisfatta di sé, in pace con se stessa - e quindi non in cerca di chissà quale guadagno, di chissà quale soddisfazione -  è quella che fa bene all'intera umanità.  


Ovviamente pensiamo che la libertà sia la possibilità di scegliere tra il bene e il male. Ma leggendo i Vangeli scopriamo che per Gesù libertà vera significa non avere proprio a che fare con questa alternativa. Di conseguenza a Gesù il male interessa pochissimo. Il che si manifesta nell'espressione di san Paolo: "far morire in noi il peccato".

Credo di comprenderla così: quando siamo a un bivio, il male ha già la sua prima vittoria, perché si propone come alternativa possibile. Invece è nulla. Noi sì, siamo qualcosa, e sono qualcosa gli altri, tutti, tutti gli esseri viventi che ci circondano. Se ci dedicassimo completamente all'essere, il male non sarebbe preso in questione neppure come ipotesi.

Ecco la vera libertà.


domenica 8 novembre 2009

appunti per una teoria del popolo ultimo/2

Il popolo ultimo rifiuta i tradizionali strumenti di potere

Questo obbiettivo è raggiungibile a partire, prima di tutto, dal rifiuto degli strumenti che tradizionalmente la storia mette a disposizione degli ambiziosi: potere militare, potere economico, potere culturale.

Nazionalismo, armi, denaro, lavoro, merci, ideologie politiche, religioni, scientismo, lingua, tecnologia. Questi fattori vengono oggi sfruttati dai protagonisti della storia come elementi competitivi nella corsa di tutti contro tutti. Tutti questi fattori: da quelli che appaiono intrinsecamente generatori di male, come il nazionalismo o le armi, a quelli di cui è più facile apprezzare dapprincipio i benefici, come lingua e tecnologia.

I risultati di tale approccio sono ogni giorno sotto i nostri occhi: la violenza sulla terra è pesante e apparentemente inestirpabile.
È un approccio da rifiutare a priori. Rende qualche uomo più felice, ma non più felici la maggior parte degli uomini.

Verso un nuovo metodo di conoscenza e di vita

Il popolo ultimo, ammaestrato dalle sofferenze patite, vuole disegnare e percorrere un nuovo metodo di conoscenza e di vita.
Adatto all’obbiettivo di farsi sale della terra. Adatto a questi tempi. Adatto all’uomo e alle sue possibilità.
Senza pretesa di organizzare a priori la realtà secondo criteri che il tempo dimostrerà inevitabilmente parziali o addirittura falsi. Dandosi invece semplici regole e verificandone sul campo la congruità. Se ci avvicineranno allo scopo andranno perfezionate e diffuse. Se ci allontaneranno dallo scopo andranno emendate e poi cancellate.

Si crea così un nuovo Decalogo. Realistico, “dolce”, e buono per il popolo ultimo in cerca di direzione. Un Decalogo da cui muovere per risalire la corrente della propria memoria e della storia.

1. Ascolta sempre l’altro e lascia che parli per primo
2. Non contrabbandare mai per verità la tua opinione
3. Rispetta il sentire comune della tua gente
4. Credi a quel che ti dicono solo dopo averlo verificato di persona
5. Guadagna quanto ti serve per vivere e toglierti qualche sfizio
6. Se sei uomo, coltiva la parte femminile che è in te
7. Se sei donna, coltiva la parte maschile che è in te
8. Credi col cuore alla tua possibilità di cambiare la terra
9. Ama e proteggi la vita degli uomini, degli animali e delle piante
10. Respira col mondo

sabato 7 novembre 2009

appunti per una teoria del popolo ultimo/1

Cosa è o chi è un popolo ultimo?

Un popolo ultimo è un popolo perdutosi tra le pieghe della storia fino quasi a diventare invisibile.

Non è un popolo privo di storia. È un popolo che ha perso le sue battaglie - militari, sociali, economiche, culturali - e non compare quindi nei libri di storia scritti da chi, quelle battaglie, le ha vinte.
Nel migliore dei casi è un popolo che mantiene consapevolezza di sé grazie al retaggio degli avi, tramandato innanzitutto con la lingua. Nel peggiore dei casi è un popolo che assimila tutto ciò che viene dai vincitori, a cominciare proprio dalla lingua. Con il rischio di farsi sommergere e diventare altro da sé.

Quest’ultima evenienza chiude il cerchio. Il popolo è ultimo perché privo di memoria: privo di memoria di se stesso e, conseguentemente, privo di “nome” presso gli altri popoli. È un popolo che a tal punto si riflette negli usi e costumi dei vincitori da marchiare con il loro brand anche le sue migliori realizzazioni. E da viverne le sconfitte come proprie sconfitte.

Quali obbiettivi deve porsi un popolo ultimo?

Primo obbiettivo del popolo ultimo è recuperare memoria di sé.

Attraverso il ripristino della memoria di sé, il popolo ultimo restituisce consapevolezza, dignità e soprattutto autonomia alla propria azione. Arrivando a comprendere che i suoi bisogni e interessi sono diversi da bisogni e interessi dei popoli vincitori. E agendo di conseguenza per tutelare se stesso. Il popolo ultimo torna in questo modo ad essere popolo visibile tra altri popoli visibili, popolo cittadino del mondo tra altri popoli cittadini del mondo, popolo di fratelli fratello ad altri popoli.

Ha senso porre come obbiettivo finale del popolo ultimo il suo primeggiare su altri popoli?
No, non ha senso. Significherebbe tornare alla logica vincitore/vinto, logica di prevaricazione e assimilazione.

Obbiettivo finale del popolo ultimo è farsi sale della terra.
Proporre cioè agli altri popoli una propria e originale visione del mondo e dei rapporti tra esseri viventi. Mostrare agli altri popoli la propria strada perché ne traggano, se vogliono e in totale autonomia, gli insegnamenti che preferiscono. Diventare fermento salutare, perché solo in questo modo il proprio sviluppo si traduce in sviluppo di tutti. In poche parole: restituire in bene al mondo ciò che dal mondo si è ricevuto in male.

giovedì 5 novembre 2009

appunti per una scrittura morale

La scrittura morale è una scrittura che, prima di tutto, si interessa profondamente ai costumi dei suoi personaggi, ai loro usi, ai loro comportamenti, dandosi l’obbiettivo di descriverli e di illustrarne gli effetti.

La scrittura morale non si pone il problema di giudicare cosa è bene o male nei costumi dei suoi personaggi, cosa è giusto e cosa è sbagliato. Convinta che la scelta morale attenga alla sfera della coscienza individuale, rispetta il comportamento del personaggio e non esprime una valutazione su di esso.

La scrittura morale non ignora le categorie del bene e del male. Sa che la predilezione per un certo argomento o per determinati personaggi è essa stessa frutto di una scelta morale, prerogativa dell’autore. È anche pienamente consapevole del suo essere strumento etico nei confronti del pubblico, presso il quale veicola storia e personaggi. Limita però il più possibile la portata di questi fattori, con due obbiettivi. Lasciare ai personaggi la libertà di muoversi a piacimento sulla pagina, scegliendo di pensare, dire e fare ciò che sembra loro più giusto. E lasciare al lettore la più ampia libertà di giudicare il comportamento dei personaggi, secondo i propri criteri.

La scrittura morale “sta” letteralmente sulla spalla dei personaggi, per seguirne l’azione. Limita le incursioni nel loro cuore e nella loro mente per limitare l’influenza che su di essi gioca l’autore. E descrive con agio l’ambiente in cui i personaggi agiscono. Scopo di questi criteri è portare la realtà ad emersione, con forza e chiarezza di dettaglio. Per tutto ciò la scrittura morale è una scrittura neutrale, ma non neutra e non semplicemente documentaria.

La scrittura morale ha come obbiettivo finale costringere il lettore a riflettere sui problemi relativi alla condotta dell’uomo e del suo mondo. Senza porgergli un’interpretazione preconfezionata di ciò che ha letto. Ed evitando di suggerirgli valori e metro di giudizio, inevitabilmente dell’autore e non suoi. Il lettore è dunque il protagonista ultimo e più importante della scrittura morale.

mercoledì 4 novembre 2009

Il sacro, il tango e il crocifisso

Ci risiamo. Ogni volta che viene sollevata la questione della presenza dei crocifissi nei luoghi pubblici - in particolare nelle scuole - i giornalisti si scatenano. A tutti si chiede un parere: politici, intellettuali, uomini di chiesa, gente comune. Quasi sempre la risposta a proposito del "crocifisso sì, crocifisso no" viene dalla rivendicazione di un'appartenenza. "Io ci tengo alle nostre radici cristiane!", afferma uno. "Io voglio un'Italia laica", rivendica un altro. E così via.

Difficile che ci si interroghi davvero sul simbolo in questione, sia da una parte che dall'altra. E se si accenna a una riflessione - lo fanno soprattutto quelli del "sì" - gli esiti sono un po' incerti: "è il simbolo dell'amore, dell'amicizia, della disponibilità agli altri" (tutte sentite davvero).

E io mi domando: ma davvero è così ovvio che un giovane uomo quasi nudo appeso a una croce e morto sia il simbolo dell'amore, dell'amicizia o della disponibilità agli altri?
Tentando di guardarlo con occhio disincantato, e non necessariamente dissacratore (del resto questo non lo fa quasi nessuno), direi che bisognerebbe piuttosto dire che il crocifisso è il simbolo della fine che si fa a cercare di essere troppo generosi nell'amore, troppo fedeli nell'amicizia, troppo disponibili.
Insomma: la manifestazione visibile di quanto è duro il mondo e crudele il cuore degli uomini.

Il Cristo, infatti, lì è proprio un "povero Cristo", e chi sulla croce ce lo ha messo ha vinto, come sempre vincono, nella storia e in ogni epoca, i cattivi. E' questo che si vuole insegnare ai ragazzi? Si tratterebbe di una lezione molto realistica e concreta, lo riconosco. Ma per non essere rinunciataria e scoraggiante dovremmo allora caricarla del sapore di una denuncia. Tipo: "Esponendo il crocifisso ci dichiariamo dalla parte di chi subisce il torto, l'ingiustizia, la sopraffazione!".
Allora è questo che vogliamo dire? E se sì, che c'entra il politico leghista che prima vota in Parlamento leggi che rendano il più possibile dura la vita degli immigrati, anche quelli onesti, e poi si proclama appartenente alla cultura cattolica occidentale?

Ma veniamo ai cristiani. E' evidente per loro che il crocifisso vuol dire qualcosa non solo come celebrazione dell'eroismo di una morte innocente. Se ha senso una fede nel Dio di Gesù Cristo questo sta nella speranza che il Padre vince, libera dalla morte il Figlio, il giusto. E così - meraviglia! - riapre una speranza di redenzione non solo per le vittime, ma anche per i carnefici.
E' questo che il crocifisso riesce a dire semplicemente appendendolo al muro?

Non mi dilungo. Nel campo del sacro io sono per il tango, cioè per il movimento, e non per ciò che è statico (vedi, in questo blog, il mio intervento intitolato "il sacro e il tango/1). In questo caso: io sono cristiano, ma proprio come tale sento la necessità che tra morte e risurrezione si riequilibrino le parti - come Nuovo Testamento vorrebbe: due movimenti di una stessa vittoria. Movimenti, appunto. Non una cosa così ferma - in quanto antica e intangibile tradizione -  che a malapena si trova qualcuno disposta a spiegarla davvero e poi a viverla.

Ed ecco la proposta: decidiamo eccome se toglierli o tenerli, i crocifissi nelle scuole. E decidiamo, direi, laicamente. Ma comunque, consapevoli tutti - laici, laicisti, credenti, tutti - dell'importanza storica del simbolo in questione, procediamo dopo aver fatto insieme una bella riflessione: sappiamo cosa vuol dire quel segno (o cosa "voleva dire", se, come sembra, lo abbiamo dimenticato)? Quale simbolo unificante metteremmo al suo posto, visto che un'identità comune, anche minima, sarebbe meglio averla? E se credenti: davvero ci è rimasto solo il crocifisso, da difendere, e vogliamo lasciare che a dire la nostra smisurata speranza resti sola la croce? 

venerdì 30 ottobre 2009

spiegatemi che senso ha

L’avvocato Angelo Proserpio ha votato alle primarie del Partito Democratico domenica 25 ottobre, a Saronno.

L’avvocato Proserpio è un personaggio piuttosto noto in città, professionista stimato e con una lunga vita politica alle spalle, nelle fila dei partiti del centro sinistra. Tra le altre cose, è stato Assessore alla Cultura in una precedente amministrazione comunale e candidato per l’Ulivo alla Camera dei Deputati.

Perché la partecipazione di Proserpio alle primarie che hanno decretato la vittoria di Pierluigi Bersani fa notizia? Per capirlo bisogna compiere un passo indietro e spiegare in breve gli ultimi avvenimenti politici cittadini.

Dopo dieci anni di governo di centro destra, tra giugno e luglio si è affermato a Saronno un sindaco di centro sinistra: Luciano Porro, candidato del Partito Democratico e vincitore al ballottaggio con il 52% dei voti sulla rivale Annalisa Renoldi, candidata di UDC, Popolo della Libertà e Lega Nord. Porro, dal canto suo, aveva il sostegno di numerose liste d’area, tra cui Tu@Saronno, guidata proprio dall’avvocato Proserpio. A Proserpio è andata la poltrona di vicesindaco, mentre Porro si è insediato sullo scranno di sindaco. Il governo del centro sinistra è durato però pochi giorni. È caduto in seguito alle dimissioni degli uomini del centro destra, che avevano la maggioranza in consiglio comunale. I saronnesi, infatti, hanno assegnato la vittoria al ballottaggio a Porro dopo aver dato al primo turno la maggioranza consiliare ai suoi avversari. Una situazione bizzarra, che ha avuto questo esito: oggi Saronno è guidata dal Commissario prefettizio. E così sarà fino alla nuova tornata elettorale, la prossima primavera. Quando, si spera, i cittadini esprimeranno un giudizio politico univoco.

Le manovre in vista delle nuove elezioni sono già cominciate e Luciano Porro si è ricandidato alla carica di sindaco, con il sostegno di tutte le forze che l’hanno accompagnato al ballottaggio.

Tutte tranne una: Tu@Saronno. Sempre guidata dall’avvocato Proserpio, la lista civica si è chiamata fuori dalla coalizione. Al momento Proserpio non ha ancora annunciato la sua candidatura a sindaco, ma tutto lascia pensare che compirà questa scelta. In nome, dicono i suoi sostenitori, della necessità di cercare e poi rappresentare il consenso degli elettori che non si riconoscono nei rissosi partiti del nostro parlamento. Essi affermano che i partiti dovrebbero fare un passo indietro e che le liste civiche interpretano meglio bisogni e speranze della società.

Ecco perché appare strano che l’avvocato Proserpio si sia avvicinato il 25 ottobre ai seggi del Partito Democratico per votare.

Tra le possibili spiegazioni di questo gesto, incongruo per un personaggio che professa opposizione ai partiti, riporto quella che a me appare più verosimile. Proserpio ha votato alle primarie del PD perché sente il PD come la propria formazione di riferimento a livello nazionale. Ma rifiuta di allearsi con esso a livello locale perché noi del PD di Saronno non siamo all’altezza delle sue aspettative politiche. E perché, presumibilmente, ritiene di essere un candidato sindaco migliore del nostro. È un'ipotesi zoppicante, lo so, soprattutto se si pensa che il matrimonio era già stato celebrato in giugno. È però anche l'ipotesi meno bislacca tra quelle che ho sentito enunciare in questi giorni da differenti personaggi della mia parte. Ovviamente sarebbe interessante sentire in proposito il parere di esponenti di altre forze politiche, coalizzate o meno con il PD. E più di tutte sarebbe utile a chiarirmi le idee l’opinione dello stesso Proserpio. Il quale, come autore del gesto, è l’unico autorizzato a darne un’interpretazione autentica.

Io però ho un’altra domanda, da porre non all’avvocato ma ai miei compagni di partito.
È possibile che l’identità del PD sia così labile da rendere naturale per un uomo avvertito come l’avvocato Proserpio attraversarla con tanta noncuranza?
È davvero così facile essere democratici?

domenica 25 ottobre 2009

c'è bisogno di ingenuità

Il nostro mondo occidentale è preda di uno smisurato e potente senso di colpa. In questo siamo vecchi, molto vecchi. Per reazione alla colpa, infatti, il nostro cuore si indurisce: "che si pretende da noi, poveri colpevoli? Lasciateci ammettere le nostre colpe e poi lasciateci in pace!", diciamo tutti, come fanno gli adolescenti quando di fronte alle pretese dei genitori (quelle avanzate "per il loro bene") si sentono inadeguati.
Ovviamente, poi, appena uno è un poco più colpevole di noi lo attacchiamo come belve inferocite: è proprio così che fanno i colpevoli.

Sì, siamo colpevoli un po' di tutto. La colpa è la dimensione unificante del nostro passato e del nostro presente. Siamo colpevoli del colonialismo, delle guerre mondiali con i loro orrori, dello sterminio degli ebrei e di altri genocidi, della guerra fredda, dell'industrializzazione forzata o subita passivamente, della ricerca del profitto in ogni rapporto sociale, dello sfruttamento del sud del mondo, del fallimento delle ideologie - tutte colpevoli anch'esse -, della nostra cattiva alimentazione, della mancata prevenzione delle malattie - e quindi siamo sotto sotto colpevoli anche quando siamo malati -, della rovina della natura e della biosfera... 

Sì, viviamo nel senso di colpa e gli animali con la loro ovvia naturalità ci fanno continuamente vergognare di noi stessi (per questo tendiamo a risarcirli con intense cure, invece che convivere con loro per quello che semplicemente sono).

Da tutta questa somma infinita di colpe deriva il nostro ostinato e confuso balbettìo. Per esempio è difficile dire nel modo giusto di credere in qualcosa - prima di tutto nell'uomo, figuriamoci in dio -, perché tutte le fedi, manco a dirlo, sono colpevoli: di fronte alla storia, di fronte alla scienza, di fronte ai poveri o alle donne e così via. E chi pensa di credere lo dice urlando, per timore di qualsiasi smentita. Ma la smentita che teme, che prontamente arriva poco dopo che ha aperto bocca, ce l'ha già dentro da sempre, lo accompagna in ogni istante della sua speranza.
Altro esempio: l'arte non se la sente di rappresentare la figura umana, e se lo fa ci mostra una figura tormentata, frammentata, dissolta e lacerata. C'è stato un tempo in cui gli artisti consideravano normale ritrarre una bella donna per raccontare il divino. Oggi non possiamo proprio nemmeno provarci. Siamo colpevoli, infatti, nei confronti del corpo e di ogni bellezza.
La politica, infine, chiede continuamente scusa di esistere: il risultato in questo campo è una campagna elettorale continua, perché nessuno si sente mai davvero autorizzato - e responsabilizzato -  a governare. E anche qui: chi lo pensa, lo grida per sovrastare le voci o le insinuazioni o le manovre o gli strilli di chi mette sempre in dubbio il suo diritto-dovere. E così sia chi è al potere che chi è all'opposizione vive nel terrore.

E se invece di cercare di essere nello stesso tempo colpevoli, duri e scaltri (prudenti, accorti, cauti, furbi, attenti a ogni parola o attenti a gridare abbastanza e attenti ad ogni apparire) fossimo tutti un po' più ingenui?

Ingenui vuol dire "nuovi", "appena nati". Una persona ingenua si muove con una sorta di ignoranza e spesso appare ridicola e inadeguata e mette in imbarazzo. Un ingenuo è per forza di cose un portatore di novità: le "cose come stanno" gliele spiegano gli altri, cioè quelli che gli aprono gli occhi sulle colpe del mondo, dalle quali deve sapersi guardare e delle quali (non faccia finta!) deve rispondere anche lui.

L'ingenuo, a volte, suscita il sospetto che stia facendo apposta. L'ingenuità, del resto, non si dimostra: o c'è o non c'è. Bisognerebbe, però, lasciarsene sorprendere e toccare. Perché l'ingenuità fa bene.

Il famoso "discorso della luna" di giovanni XXIII (per tutti il "papa buono"...) è fatto di parole ingenue. Ghandi apparve spesso ai suoi ascoltatori un uomo ingenuo. Così inventò una nazione, ma soprattutto cercò di inventare la sua anima (era ingenuo anche quando diceva apertamente che il sistema delle caste è il frutto avvelenato dell'amata fede induista). Obama, in alcuni suoi discorsi prova ad essere ingenuo (come al cairo, quando ha detto semplicemente che anche nel mondo islamico dovrebbero esserci libertà religiosa e parità per le donne). 

La vecchietta che recita il rosario per tutti i suoi occupatissimi nipoti è ingenua. Benedetto XVI in visita ai terremotati dell'abruzzo che legge loro un freddo discorso scritto non lo è e rischia di dimenticarsi che per fare bene il papa bisogna fare il padre.

Dostoevskij era ingenuo: si sente, leggendolo, che sa stupirsi ancora delle cose che già ai suoi tempi sembravano orrori necessari e inevitabili. Hemingway, a suo modo, era ingenuo, con tutto quel suo egoismo di cui parla apertamente. Kafka, nel suo spavento di fronte al mistero del mondo, nascosto nelle cose più minute e concrete, lo è sempre. C'è ingenuità in molti romanzi scritti ancora oggi da autori dei paesi in via di sviluppo (india, africa, sudamerica...), perché sembrano autori del nostro neorealismo cinematografico e parlano ancora semplicemente di povera gente.

E anch'io, che tento di coinvolgervi in questa tremolante riflessione, sono ingenuo. Ma non abbastanza.

Ma incontrare un ingenuo, uno vero, è sorprendente come incontrare un angelo. Non vi è mai capitato? proviamo a raccontarcelo.

venerdì 23 ottobre 2009

dalla "cosa" di moretti alle primarie del pd

ieri sera ho rivisto la cosa di moretti e ne traggo spunto per una riflessione non pacificata.

il documentario è del 1990, ma se guardo al disorientamento dei suoi protagonisti sembra passato appena un giorno. i militanti del pci discutevano allora nelle sezioni le proposte di occhetto e si facevano le domande più ampie e tradizionali: chi siamo, cosa vogliamo, dove andiamo. ebbene, è lo stesso disorientamento che trovo io oggi nel pd.

per cosa diavolo sono trascorsi vent’anni? veltroni parlava di «grande forza riformista» e il suo fiasco indica che l’approdo al riformismo è tutto ancora solo nelle parole. chi siamo, cosa vogliamo e dove andiamo: io non ho sentito una risposta chiara per queste domande, né a livello nazionale né a livello locale. è così infatti anche nel circolo di saronno, cui appartengo. pressati da perenni emergenze, elettorali o meno, abbiamo rinunciato a discutere di noi stessi. come mi aveva facilmente pronosticato poco più di un anno fa tosi - il segretario provinciale -, è l’azione alla fine a dettare l’identità. magro risultato per chi si è accostato al pd nella speranza di vedervi finalmente distillato oltre un secolo di esperienza politica sociale. il mondo ha bocciato il comunismo e tuttavia i militanti ritratti da moretti miravano almeno alto. noi questa ambizione l’abbiamo completamente persa.

sul perché sia accaduto tutto ciò si fanno ipotesi verosimili. negli ultimi decenni il vento ha spirato sulla terra in senso contrario a solidarismo e comunitarismo. idem in italia, con berlusconi e lo stile di vita arrogantemente individualista che si è portato dietro. ma questa spiegazione non mi basta. ora che il vento cambia direzione e si fa incerto, la destra in italia e fuori continua a dimostrare una capacità di manovra che a noi manca del tutto. tremonti e i suoi compagni si permettono di passare da un modello economico all’altro, con totale spregiudicatezza e rubandoci parole d’ordine che dovrebbero appartenere a noi.

io credo che il difetto stia nel manico, nel nostro manico. chi si spulci le mozioni di bersani e franceschini, vi troverà propagandato a più riprese il merito come architrave di rapporti sociali corretti. troverà il merito declinato in tutte le salse. ma non troverà menzionata neanche una volta la giustizia sociale. neanche una volta. queste sono persone che, nell’ansia di incarnare il nuovo, hanno perso la capacità di ricordare il passato e recuperarne il meglio. ecco perché vanno a traino di tremonti.

la storia che io ho tanto amato, la storia di un socialismo e di un cattolicesimo capaci di camminare accanto all’uomo comune, è semplicemente evaporata. non abbiamo radici. e senza radici, non si legge il presente e tanto meno si può scrutare il futuro. lo slogan adottato da bersani - “per dare un senso a questa storia” - a me sembra una solenne presa in giro. e io il 25 voto marino. contro l’apparato che si auto replica e riempie di fumo i miei occhi.

da tangentopoli in poi ho sempre votato la coalizione di centro-sinistra, mai barrando il simbolo di un singolo partito. ritenevo che la coalizione mi rappresentasse e che nessun singolo partito mi rappresentasse. sono entrato nel pd perché finalmente centro e sinistra si univano: il pd mi rappresentava.
la mancanza di elaborazione di cui parlavo sopra e il deficit di identità che ne consegue causano però un grave difetto. vedo a malapena la sinistra. non vedo più il centro. non parlo di uomini, parlo di idee e progetti coerenti. non vedo più le idee del centro adeguatamente rappresentate nel pd. non le vedo a livello nazionale e non le vedo a livello locale. come me, non le vedono molti elettori, tanto che il pd è in costante emorragia di voti. proprio al centro, laddove dovrebbe crescere se volesse davvero agguantare il governo d’italia.

un partito democratico del genere a me interessa davvero poco. e dunque: che fare?

mercoledì 21 ottobre 2009

sarditaliano/4 (e ultimo)

Italiano, europeo, cittadino del mondo, sardo.
Quale di questi elementi viene prima degli altri? Devono fondersi? Devo fare io uno sforzo consapevole e ideologico per privilegiarne uno?
No. Sarebbe sbagliato ed è anche impossibile.
Non si può privare l’individuo di una parte della sua personalità. O coartarla.

Gli indipendentisti dicono che avremo l’indipendenza quando i sardi sapranno di essere sardi e non italiani.

Ma se cercassi di estirpare la mia italianità e riempire il vuoto con la mia sardità, se mi sottoponessi consapevolmente a questo esperimento di laboratorio, otterrei un solo risultato: diventare un infelice.

Forse gli indipendentisti parlano dei sardi del futuro. Di una generazione già prossima alla mia, ma diversa.

A me spetta il compito di formarmi a una mentalità libera da pregiudizi, convenzioni e stereotipi culturali.
E di formare altri sardi - con la parola scritta e parlata, perché questo è il mio talento - all’indipendenza di pensiero, alla conoscenza della loro storia e alla scoperta delle loro tradizioni.
Penso ai bambini, ai ragazzi e ai giovani. Affinché poi, nella vita da adulti, venga loro naturale pensare e agire da sardi.

Certo, non voglio morire da gallo romanizzato.

martedì 20 ottobre 2009

sarditaliano/3

E poi sono sardo. Per tanti versanti.

Ho visto molti posti straordinari. Ma in nessun luogo il cielo, il mare e la terra si incontrano come a Cagliari, la mia città.

Ho visto molti posti straordinari. Ma nessun luogo mi scuote come l’interno della mia isola. È talmente selvaggio che viene voglia di stringersi al suolo e addormentarsi per sempre, finalmente uniti alla terra.

Ho sempre avuto fortissimo il senso della mia insularità, geografica ed etnica. Qui prendi la macchina o il treno e arrivi a Capo Nord. Lì prendi la macchina o il treno e arrivi al mare. Il mare ci chiude da ogni lato e servono la nave o l’aereo per giungere in continente. Non ho mai vissuto l’insularità come un limite o un impoverimento, ma come una grazia del destino. Non mi reclude, perché posso (faticosamente) varcarne i confini quando voglio. E mi protegge da chi non conosco. Sull’isola so dove sono e soprattutto so con chi sono. Qui ti giri e trovi accanto a te un volto e un animo che non puoi classificare, non sapendo da quale regione o lontano paese vengano. Lì ti giri e trovi accanto a te un sardo. Sardo tra i sardi. L’isola mi aiuta a conoscere e riconoscere la mia gente. È il mio rifugio da questo luogo troppo aperto.

Sono capace di pronunciare e pensare qualche parola in sardo. Le poche che ho assimilato dall’ambiente della mia infanzia. Ogni volta che pronuncio o penso una di queste parole mi si apre un orizzonte di senso nuovo e diverso rispetto a quello praticato con la lingua italiana. E sono più libero.

Sono sardo perché mio padre mi ha regalato l’edizione originale de La lingua sarda di Wagner, stampata a Berna nel 1951, pescandola tra le centinaia di libri di cose sarde della sua biblioteca. Libri che ho sfogliato moltissime volte quando ancora vivevo con la mia famiglia. E che terrò io quando lui non ci sarà più.

Chi dice che l’Europa ha radici cristiane è ignorante o in cattiva fede. L’Europa ha radici pagane. Io, che sono sardo, lo so bene. Ogni volta che torno a Sa dommu e s’Orku di Siddi respiro una solennità e una tensione spirituali ineguagliabili. Paganesimo incardinato nel rapporto con la natura: la terra, la pietra, il legno. I miei avi conoscevano l’anima del mondo. E io ne percepisco ancora la lontana eco.

Col tempo, ho lentamente scoperto che porto sulle spalle una storia di popolo. E non posso non maledire chi non me l’ha insegnata quand’era il momento. Sono stato derubato della vita passata della mia gente. Nessuno mi ha mai raccontato della civiltà nuragica, delle dominazioni straniere, del periodo giudicale. Nessuno, se non per accenni frammentari e comunque fuori dalla sede istituzionale in cui questo racconto andava svolto: la scuola. Perché è la scuola - lo sappiamo per esperienza diretta - a formare la coscienza nazionale di un individuo. Ho dovuto imparare tutto ciò da solo.

Di recente a Cagliari mi sono trovato a cena con dei vecchi compagni di classe. A tavola eravamo in quindici: e su quindici, io ero l’unico libero professionista. Tutti gli altri erano e sono dipendenti pubblici o privati. D’alto livello, ma dipendenti. Mi arrabbio molto per la mancanza tra i miei conterranei di un maggiore dinamismo economico e sociale. E sono contento di arrabbiarmi: sono sardo e la sorte dell’isola non mi è indifferente. Posso e voglio fare tanto perché cambi la mentalità dominante: acquiescente, indolente, chiusa se non ottusa. Il mio sogno è tornare in Sardegna e lavorare con i sardi alla maniera dei kibbutzim che hanno creato Israele. Trasformando terre che tutti dicono avare e povere in un giardino dell’Eden.

Dunque sono e mi sento sardo.
E vivo da sardo, con la testa e con il cuore...

lunedì 19 ottobre 2009

è uscito in edizione economica un nostro romanzo


Il nostro romanzo Il violinista di Praga, uscito in libreria nel 2007, è ora disponibile in edizione economica. Lo si può trovare distribuito nelle edicole.
Si tratta di un thriller storico, firmato con lo pseudonimo Michael Crane. La vicenda è ambientata nella capitale della Boemia nell'anno 1787. Ha per protagonisti il grande musicista Mozart, una nuova figura di investigatore, un misterioso manoscritto e... il colpevole - al lettore indovinare chi - di atroci delitti. Il tutto nei giorni della prima de Il Don Giovanni, la più intrigante opera del compositore austriaco.
Attendiamo per la prossima primavera la pubblicazione del romanzo in spagnolo nei tipi di Grijalbo, un importante editore del gruppo Random House.

sarditaliano/2

Per me è cominciata, circa una quindicina d’anni fa, un’opera di decostruzione delle verità che famiglia, scuola e società mi avevano impartito.

Mi hanno insegnato che la famiglia basata sull’unione tra uomo e donna è la cellula naturale e fondamentale della società.
È falso.
Anche l’unione tra uomo e uomo o tra donna e donna è naturale. E c’è stato un tempo, molto più lungo dell’attuale, in cui uomini, donne e bambini vivevano comunitariamente. La famiglia, come oggi la conosciamo, ha radici patrimoniali, religiose e sociali precise, che l’antropologia ha bene approfondito.

Mi hanno insegnato che esiste un solo dio e che, a voler essere proprio giusti, è il nostro dio.
È falso.
Esistono tanti dei quanti sono gli uomini. Non ho infatti incontrato due uomini che abbiano la stessa idea di dio, nemmeno tra coloro che sostengono di appartenere alla medesima fede religiosa.
L’autorità mi spinge ad obbedire alla Chiesa e alla sua visione di dio. Ma io voglio obbedire alla chiesa che è nel mio cuore e alla mia visione di dio. Questo è il dio che soddisfa la mia spiritualità, non un altro.
E rispetto chi non crede in alcun dio, non ritenendomi superiore o più ricco di lui.

Mi hanno insegnato che la guerra ha accompagnato l’uomo in tutta la sua storia e che è connaturata a lui.
È falso.
L’umanità ha conosciuto nel tempo lunghi periodi di pace. Ogni vivente desidera la pace.
E persino il più violento, ambizioso e potente degli uomini è, in ultimo, ancora libero di scegliere se fare la pace o la guerra.

Mi hanno insegnato che nella vita bisogna avere successo e ottenere il riconoscimento altrui.
È falso.
Nessun risultato professionale mi ha mai soddisfatto.
E ho imparato che è molto più difficile rispondere alla domanda: come posso ricongiungermi con me stesso?

Mi hanno insegnato che sono italiano.
È falso. O, per lo meno, non è l’intera verità.
Prima di tutto perché so da un pezzo di essere e sentirmi anche europeo e cittadino del mondo. Per un paio di motivi fondamentali.

Ancora oggi tremo d’emozione al leggere le cronache della Somme. È assurdo che nei secoli l’Europa abbia buttato via in guerre fratricide le sue forze migliori. Credo che l’Europa sia abitata da popoli destinati ad essere fratelli. Non per costrizione, ma perché hanno scoperto quali buoni frutti produce l’unione delle genti entro i confini del nostro piccolo continente. E ho sempre guardato con entusiasmo alla crescita e al rafforzamento prima della CEE e poi della UE. Per anni ho tenuta appesa in camera la bandiera azzurra a dodici stelle.

Per lungo tempo ho vissuto con filippini, coreani, argentini, indiani. E ho viaggiato, anche. Da queste esperienze ho ricavato una convinzione: è semplicemente stupido stilare classifiche tra culture e sistemi di valori diversi. Il rispetto e l’ascolto possono risolvere gran parte dei problemi dell’umanità. Intolleranza, confini e discriminazione nascondono la realtà: tutti gli uomini sulla Terra hanno diritto di crescere e vivere bene. È un diritto che vogliamo per noi e non possiamo negarlo ad altri. Il cosmopolitismo, prima ancora che una scelta, è un dovere e una necessità...

domenica 18 ottobre 2009

sarditaliano/1

Io sono italiano per tanti motivi. Ecco i più importanti.

Sono stato battezzato e unito ancora incosciente alla fede cristiana cattolica. Fede di Roma, dunque orgoglio d’Italia. Felice di appartenere a un credo che sapevo universale ma che aveva pur sempre il centro nel mio paese. Obbediente a un magistero originatosi a Roma e che si irradiava da lì sul mondo intero.

Da che io ricordi, mio padre e mia madre mi hanno sempre detto che sono italiano.

A casa e poi in classe mi è stato insegnato l’italiano. Una lingua non informa semplicemente, ma forma chi in essa viene educato e io sono cresciuto dentro un mare di significanti e significati italiani. Alla visione del mondo “italiana” si sono adeguati la mia coscienza e i miei rapporti esterni, personali e materiali.

Da piccolo, frequentavo una scuola privata in cui l’alzabandiera era usuale. Con accompagnamento della Canzone del Piave. E sono cresciuto nel culto di quella battaglia e degli eroi che diedero la vita per difendere la patria.

Storia, letteratura, scienza, arte: tutta l’istruzione di base mi è stata impartita in chiave italiana. I successi italiani nei campi del sapere e dell’agire sono diventati i miei successi, le sconfitte italiane le mie sconfitte. Ho imparato a ragionare e misurare la mia statura di individuo dotato di identità nazionale sul metro dell’identità nazionale italiana. Nella convinzione assoluta che un popolo italiano, che una nazione italiana esistano. E che i sardi ne facciano parte. Dunque, oggi, se l’Italia va bene anche io vado bene. Se l’Italia va male anche io vado male.

Io scrivo in italiano per le scuole italiane. I ragazzi apprendono dai miei libri la storia italiana, la geografia italiana, il valore della costituzione italiana. Una logica chiusura del cerchio rispetto a quanto ho sperimentato da giovane.

Io scrivo e pubblico i miei romanzi in italiano. Qualsiasi vicenda racconti e dovunque essa sia ambientata, per spazio e tempo, la racconto con mente italiana e prima di tutto a un pubblico italiano. Le traduzioni estere mi fanno contento, ma è dentro i nostri confini che devo avviare il successo. L’industria editoriale e culturale di massa italiana è il mio ambiente professionale di riferimento.

Milito attivamente nel Partito Democratico italiano. Che ho ritenuto la naturale e felice conclusione di una storia iniziata quasi centotrenta anni fa con l’elezione a deputato di Andrea Costa. Io mi sento discendente suo e di Romolo Murri. E se esistesse ancora, voterei per il Partito d’Azione. I miei maggiori politici si trovano dalle parti di Salvemini, Gobetti, fratelli Rosselli, Giustizia e Libertà. Una tradizione pienamente italiana di tensione etica e rigore civico.

L’italianità ha filtrato ogni spunto “pubblico” di sardità. Brigata Sassari che sfila a Vicenza, Emilio Lussu che si batte contro Mussolini, politici da Gramsci a Cossiga, banditismo a Orgosolo, petrolchimico, Cagliari scudettato. Tutto ciò che di buono o cattivo la Sardegna ha prodotto io l’ho sempre visto e interpretato in chiave italiana.

Tutti questi fattori si sono sommati e hanno agito, lentamente ma implacabilmente, dentro di me nel corso dei miei quarantacinque anni di vita.

Io sono italiano. Senza dubbio mi sento italiano.
E vivo da italiano con la testa e con il cuore.

Da molto tempo, però, questa mia identità è messa a rischio. Fortunatamente, perché nessun individuo è un monolito inscalfibile.
E tutto ciò che è dato può essere mutato...

sabato 17 ottobre 2009

un'altra africa

Venerdì 15 ottobre si è tenuta a Sulbiate, in provincia di Monza-Brianza, una serata di presentazione del nostro ultimo romanzo: "il sogno del bambino stregone".
Una piccola folla ha invaso l'aula conferenze della locale scuola media e le due voci di luca crippa e stefano allovio - scrittore il primo, antropologo e professore universitario il secondo - hanno parlato al pubblico di un'africa di cui non si parla mai.

Noi europei guardiamo a quel continente con un misto di senso di colpa di ex (e mai del tutto ex) colonizzatori, di simpatia, di indulgenza, di pena, di rifiuto. La storia raccontata nel libro è ispirata a un caso vero e illustra la realtà di migliaia di bambini respinti dalla propria famiglia perché accusati di essere stregoni. Sono atteggiamenti che provocano il nostro stupore e innescano una faticosa ricerca di spiegazione.

Ma quella gente chiede anzitutto di essere ascoltata, e non giudicata. E' lo stesso per ciascuno di noi, per le nostre contraddizioni più profonde. Così chi ha partecipato alla presentazione ha colto una buona occasione per ascoltare e si è fatto prendere da un pizzico di "mal d'Africa": il fascino per la diversità più sconcertante, la vertigine di abissi non immediatamente misurabili, il dovere di avvicinarsi con semplicità agli africani mostrando sinceramente noi stessi come loro mostrano quanto possono e vogliono di sé. Affidando al tempo, all'amore, la risposta a tante domande.

Era anche la serata in cui sono state ricordate molte figure di missionari impegnati per il bene dei più poveri del Congo, a cominciare dai bambini: una presenza costante, discreta. Una porta aperta, anche per gli africani, sul mistero di un'accoglienza incondizionata e gratuita che piano piano cambia il mondo.


giovedì 15 ottobre 2009

la parola "sacro" e il tango/1

estate del 1987. mi trovavo a tarcento, in friuli. la cittadina era fresca di ricostruzione post-terremoto. sembrava, in certe vie del centro, una località austriaca: case nuovissime (ahimè), fiori sui balconi. appena intorno, comunque, ricordo i lunghi stradoni pieni di capannoni industriali e centri commerciali, da lì fino a udine e ritorno, così come oggi in tante aree d'italia.
in città si teneva, da anni, un festival delle danze popolari. non so se si faccia ancora, era un'iniziativa molto bella.

una domenica, proprio in quel periodo, vado a messa nella parrocchia centrale. la solita liturgia così così, con un coro così così, una predica così così e intorno a me le facce serie di chi sta rispettando il precetto e l'impazienza dei bambini.
nelle prime file notavo vesti colorate e curiosi copricapi femminili.

quasi alla fine della cerimonia tutto si spiega: una parte dei ballerini giunti dall'argentina, dal messico, dall'africa, avevano voluto partecipare alla messa in costume tradizionale. il parroco spiegò la cosa, ricordò l'iniziativa in corso in città e disse qualcosa sull'amicizia tra i popoli.

poi il miracolo.
il prete disse anche che come omaggio ai presenti e a dio una coppia di ballerini avrebbe eseguito, in segno di ringraziamento e prima della benedizione finale, una danza intorno all'altare ormai spoglio. ci sedemmo. forse qualcuno sbirciò l'orologio: era l'ora degli aperitivi e del solito pranzo domenicale in famiglia.
ma i due che si alzarono e avanzarono verso l'altare erano ballerini di tango.
una fisarmonica attaccò e l'uomo e la donna si avvinghiarono in una danza dolcissima e sensuale. ruotarono, si strinsero, si lasciarono, si inseguirono, si sfiorarono. occuparono così, proprio così, per un lungo momento che per me non è mai finito, il posto del sacerdote. celebrarono davanti ai nostri sguardi stupiti, nel nostro orecchio incantato, nell'emozione che ti entrava nella pancia, qualcosa di eterno.
qualcosa di "sacro".
infine si inchinarono, fieri, bellissimi, mano nella mano, e ricevettero una tremolante benedizione.

mi emozionai tantissimo. io, credente da sempre, ebbi finalmente una rivelazione.
da quel pomeriggio cominciai a studiare la bibbia sul serio. e decisi che quel che vi era scritto doveva centrare con la magia di quella danza o dovevo abbandonarlo per sempre.
oggi, dopo 22 anni di quello studio, leggo la bibbia in pubblico cercando di convincere chi mi ascolta che la chiave ermeneutica per comprenderla è il tango.

qualcuno mi mandi una sua immagine del "sacro" e la leggeremo insieme.

mercoledì 14 ottobre 2009

premio nobel al bar

ordino il caffè e il barista si dà subito da fare. penso alla giornata: non sarà facile convincere l'editore per cui stiamo lavorando in questo periodo a cambiare idea su alcune modifiche a un nuovo manuale per insegnare storia alle medie.
un tizio accanto a me mi distrae dai miei piani.
"il nobel per la pace! avevano bisogno di fare notizia e danno il nobel a uno che dice di non aver ancora fatto niente per averlo!".
il barista sorride alla battuta. è d'accordo con chiunque per dovere d'ufficio.
ma io una cosa bella fatta da Obama me la ricordo spesso, in queste settimane. e allora parlo.
"una cosa buona l'ha fatta..."
"cioè?".
"ha parlato al cairo, un paio di mesi fa, agli islamici. ha detto esplicitamente che non c'è pace se non si difendono la libertà religiosa e i diritti delle donne".
una faccia perplessa mi guarda bene per capire se sto cercando di fare propaganda. sorrido. non sono un fan di nessuno, per partito preso. ma andare in casa degli islamici e dire che dobbiamo essere liberi di praticare la nostra religione ovunque e che le donne sono esseri umani come gli uomini non è così scontato.
"non sono cose facili da dire ai musulmani in casa loro", insisto.
"parole!", sentenzia l'amico. chissà che idea ha, lui, dell'agire di un politico sulla scena internazionale: che fa? se non lo ascoltano spara? allora sì addio al nobel per la pace!
esco dal bar. mi interrogo. si può, si deve fare un mondo migliore proprio cominciando con le giuste parole dette con semplicità?
e il premio nobel a Obama merita di essere smentito al bar?
chi si ricorda qualche altra cosa buona fatta da lui, e prima di tutto detta, che gli merita un premio?
e per quale parola davvero coraggiosa e innovativa un italiano premierebbe oggi uno (qualsiasi) dei suoi politici?

martedì 13 ottobre 2009

un sardus pater che non ne vuole sapere/2

ecco cosa mi insegna l’incontro con paolo. e a quali conclusioni arrivo partendo da esso.

la modernità investe noi e tutti i nostri conterranei. la parte maggiore se ne lascia semplicemente travolgere. i più smaliziati ne approfittano per migliorare le proprie condizioni materiali di vita. solo pochi sfruttano l’interazione col mondo allo scopo di allargare la propria coscienza e aggiungere, al buono già presente nella cultura di origine, il buono (quando c’è, quel che c’è) della cultura globalizzata.

in molti conterranei la percezione dell’esistenza di una nazione sarda è vaga, quasi impalpabile.

abbiamo da fare un lungo e paziente lavoro sulle coscienze.

per quanto lavoro si possa svolgere, è illusorio sperare di “convertire” tutte le coscienze. ma date le radicali democraticità e non violenza del movimento, non si può certo pensare di fare l’indipendenza “contro” i sardi. sarà necessaria la volontà positiva della maggioranza dei sardi: quel giorno, si proclamerà l’indipendenza “nonostante” la volontà contraria della minoranza dei sardi.

è possibile, in alternativa, che l’indipendenza arrivi per il convenire di circostanze storiche e politiche maturate altrove. sarebbe spinta dalla volontà di una buona parte dei sardi, anche se non dalla loro maggioranza, e fiorirebbe a roma, a bruxelles, a new york. diverrebbe il frutto di tempi in cui il governo di un grande stato quale è l’italia ha l’obbligo “morale” di ammettere l’autodeterminazione di una parte dei suoi cittadini. e i sardi sarebbero gli ospiti d’onore di una festa organizzata per loro da altri.

la conquista o la concessione dell’indipendenza non basteranno comunque a fare una sardegna di uomini liberi. e dei sardi i protagonisti della loro stessa storia.

se non vogliamo vedere una sardegna indipendente e, allo stesso tempo, vittima di un neocolonialismo all’africana - economico, politico e culturale - dovremo lavorare ancora e di più sui cuori e sulle teste.

e così il cerchio si chiude.

la rincorsa tra indipendenza e maturazione delle coscienze non ha una vincitrice.
l’indipendenza ha bisogno di una coscienza matura. la coscienza matura ha bisogno dell’indipendenza per crescere ancora e fortificarsi. ma entrambe si impegnano in un cammino che non prevede fine.
non saranno mai interamente realizzate, perché ogni giorno nasce un nuovo sardo che ancora ha da costruire dentro di sé la propria indipendenza e la propria coscienza nazionale.
entrambe sono già tra noi. esistono già, nei sardi che hanno conquistato indipendenza di giudizio e azione, e coscienza della propria identità.

il nostro cammino si situa tra questi due estremi.
l’indipendenza politica è solo una tappa di un disegno più ambizioso. fare dei sardi dei cittadini del mondo a pieno titolo.

lunedì 12 ottobre 2009

un sardus pater che non ne vuole sapere/1

circa un anno e mezzo fa, nel periodo pasquale, sbarco in sardegna per camminare sul sentiero selvaggio.
sbarco in compagnia di un gruppo di continentali di varia residenza, tutti aderenti ad una associazione chiamata trekking italia. Svolti i necessari preparativi, partiamo al lunedì da cala gonone e arriviamo al venerdì a santa maria navarrese, dopo parecchio sterrato e diverse notti passate sotto le stelle.
tutto molto bello e soddisfacente. Il camminare in sé, il mangiare, la compagnia, il paesaggio. un’esperienza gratificante.

la nostra guida locale si chiama paolo, fondatore e gestore di una cooperativa impegnata nel settore turistico insieme a un socio di nome salvatore.
l’incontro con paolo mi causa un piccolo shock culturale e mi offre una fonte di meditazione.
paolo ha cinquant’anni ed è il primo della sua famiglia ad aver compiuto una scelta professionale alternativa alla pastorizia. il padre porta ancora al pascolo le greggi. il legame di Paolo e del suo socio con il mondo degli avi emerge da mille particolari: lingua, mentalità, rapporto con l’ambiente. non a caso, l’ultima notte la passiamo in un loro ovile. o meglio, ex ovile adattato all’accoglienza dei clienti.
paolo e salvatore fanno questo mestiere da quasi vent’anni e mi porgono un’immagine di sardo e di sardegna per me assolutamente inaspettata. quando io ho lasciato l’isola nessuno parlava di trek ed era impensabile che un ogliastrino duro e puro si imbarcasse in un’iniziativa imprenditoriale così ardua. i due soci lavorano infatti prevalentemente con i non sardi. tra loro, molti stranieri: giovani che si arrampicano sulle rocce di cala luna o di cala goloritzé. nell’insieme, paolo e salvatore mi sembrano un prodotto felice della globalizzazione. lì, sulla terra del sentiero selvaggio, hanno trovato il modo di conciliare le esigenze aziendali e del turismo con quelle della natura, di aprirsi al mondo e proiettarsi nel futuro tenendo ben saldi i piedi nel passato.

difficilmente, però, quand’anche fa un salto, la storia salta a piedi uniti.

nel corso delle lunghe ore di cammino comune, parlo molto e litigo con paolo.
provo d’istinto un grande rispetto per lui. so che, secondo le ricerche genetiche più recenti, il suo dna presenta una corrispondenza eccezionale, pari fino al 40%, con il dna dei nostri antenati nuragici. romanticamente penso che, se c’è tra noi un sardus pater, questi è proprio la guida dell’ogliastra.
fatto è che paolo non ne vuole sapere.
il suo discorso è una sola, ininterrotta recriminazione contro i forestieri. tra i quali ci sono pure io: come cagliaritano, si rifiuta ostinatamente di considerarmi sardo. a partire dall’editto sulle chiudende del 1820, sembra che per lui chi ha amministrato la sardegna abbia fatto solo danni. si vanta di non pagare le bollette della luce e del telefono, a quanto pare servizi dovuti. e scuote la testa quando gli chiedo se un giorno la sardegna sarà indipendente. dice che è assolutamente impossibile. che i sardi sono troppo individualisti e disuniti. e ammette che lui sarebbe il primo a remare contro.
insomma, più che un sardus pater, paolo finisce per presentarsi a me come un urano divoratore dei propri figli.
una contraddizione sulla quale, per raccapezzarmi, devo riflettere a lungo...

sabato 10 ottobre 2009

il nostro nuovo romanzo


Il romanzo Il sogno del bambino stregone è l'ultima nostra fatica. io e luca l'abbiamo scritto la scorsa primavera e piemme l'ha pubblicato alla fine di agosto, sotto lo pseudonimo luca castellitto. lo si trova in tutte le librerie e nella grande distribuzione. è ambientato in congo e racconta una storia vera: quella del piccolo michel, bimbo che rischia la vita perché ritenuto stregone dagli adulti. ecco il testo della quarta di copertina.

«Intabarrato in una coperta consunta che lascia trasparire solo gli occhi, un bimbo si alza dalla panca che ha eletto a giaciglio. Non ha ancora dieci anni. Intorno a lui, una decina di compagni continuano i loro sogni agitati. Ogni sera il brulicante mercato di Kinshasa diventa dormitorio per un esercito di ragazzini. Si aggirano in cerca di cibo, si abbandonano stremati.
Molti, come Michel, sono stati cacciati di casa con un’accusa gravissima e ridicola al tempo stesso: quella di essere stregoni, degli ndoki, che trascinano il malocchio sul tetto familiare. Capro espiatorio perfetto, che si nutre dell’istigazione delle sette che proliferano per il paese: il bimbo troppo irruente o troppo silenzioso, quello che ancora fa la pipì a letto o che rifiuta il cibo è bollato. Ogni evento negativo che coinvolga la famiglia, anche il più insulso, gli verrà addebitato, fino a che non sarà messo alla porta. Ma non prima di aver subito umiliazioni, violenze, crudeli esorcismi.
Quella di Michel è una storia commovente, incredibile, eppure simile a quella di molti altri bambini. Ma è anche una storia di speranza perché, in una notte terribile, Michel incontra Sylvie, e con lei una nuova vita. Un racconto che colpisce al cuore. Una voce che ci chiede di essere ascoltata».