mercoledì 25 novembre 2009

Forse Dio non è all'origine di tutto, ma è certamente alla fine: e siamo noi

La frase che dà il titolo a questo intervento l'ho letta molti anni fa, in treno. A quel tempo mi ero impegnato a leggere qualche testo di divulgazione scientifica, scontento com'ero della mia ignoranza in questo campo. Ne valeva la pena, infatti: la scienza rende onore all'uomo, al mondo che cerca di conoscere e, per chi crede, a Dio.
L'autore del libro, di cui colpevolmente non ricordo il nome, era uno scienziato impegnato nella ricerca sull'evoluzione della vita, lungo la traccia inaugurata da Darwin, di cui ricorre il bicentenario della nascita.
E proprio per questa occasione mi è stato chiesto recentemente di tenere una conferenza su "Darwin e la creazione" in una parrocchia del bergamasco, cosa che ho fatto pochi giorni fa.
In una chiesa piena di gente (consolante, visto il tema) ho illustrato per quasi due ore, senza che si udisse un solo colpo di tosse, la teoria dell'evoluzione, con proiezione di immagini e di semplici riassunti.
E alla fine eccola lì, sulla mia bocca, la frase che in questi anni non ho mai dimenticato.

Ai tempi di Darwin lo scienziato era un avventuriero. Partiva come lui per lunghi viaggi e osservava la natura per formulare ipotesi su di essa e cercare di spiegarla.
Oggi quella stagione della scienza è un po' superata. La natura si studia soprattutto in laboratorio. E non la si studia solo per conoscerla, ma per manipolarla.
La tecnica ha preso il sopravvento sulla scienza.

La natura, del resto, non esiste più. Anche la foresta amazzonica è un'immensa riserva naturale, di cui stiamo decidendo cosa fare. E se ci diciamo che dobbiamo proteggerla è solo perché siamo consapevoli di averne bisogno.
Il mondo non ci interessa come interessava Darwin. Siamo già presi nel progettare come costruirne uno nuovo, sulla Luna o su Marte.
Viviamo nell'artificialità e andiamo nella natura in vacanza, portandoci dietro la tecnologia satellitare o, nei casi più "eroici", rinunciando temporaneamente alla civiltà per sentirci vivi. Ma sono parentesi: belle e tonificanti, ma parentesi.

Dio potrebbe non essere all'origine delle cose. Ma certamente c'è un dio al termine dell'evoluzione. Siamo noi. Con la tecnologia, che ha usato e usa la natura per distruggerla e rimodellarla, possiamo creare nuovi pianeti abitabili. Possiamo creare l'uomo in laboratorio.
Dio ha davvero finito il suo compito. Tocca a noi.

E come reagiscono i fedeli del paese del bergamasco? Non li ho rassicurati. Ho detto loro, da credente, che mai noi e Dio ci siamo guardati faccia a faccia come oggi. Mai abbiamo avuto tanto bisogno di lui, che una natura, bella e inquietante, aperta al mistero, l'ha creata e infatti ci precede.
Saremo migliori di lui?
O non è forse il momento di una nuova alleanza proprio con il Creatore che dà la vita?

domenica 15 novembre 2009

Ogni peccato, ogni rimpianto

Tutti i peccati - cioè ogni mancanza d'amore e ogni offesa a un altro essere vivente -  hanno un'unica radice: l'insoddisfazione per quello che siamo. Per questo motivo il peccato è "mortale". In un senso per cui lo si direbbe manifestazione di un istinto suicida, autolesionista, più che punito con la morte. Chi commette il male, insomma, fa pagare agli altri la propria profonda, radicata insoddisfazione. Gente soddisfatta di sé, in pace con se stessa - e quindi non in cerca di chissà quale guadagno, di chissà quale soddisfazione -  è quella che fa bene all'intera umanità.  


Ovviamente pensiamo che la libertà sia la possibilità di scegliere tra il bene e il male. Ma leggendo i Vangeli scopriamo che per Gesù libertà vera significa non avere proprio a che fare con questa alternativa. Di conseguenza a Gesù il male interessa pochissimo. Il che si manifesta nell'espressione di san Paolo: "far morire in noi il peccato".

Credo di comprenderla così: quando siamo a un bivio, il male ha già la sua prima vittoria, perché si propone come alternativa possibile. Invece è nulla. Noi sì, siamo qualcosa, e sono qualcosa gli altri, tutti, tutti gli esseri viventi che ci circondano. Se ci dedicassimo completamente all'essere, il male non sarebbe preso in questione neppure come ipotesi.

Ecco la vera libertà.


domenica 8 novembre 2009

appunti per una teoria del popolo ultimo/2

Il popolo ultimo rifiuta i tradizionali strumenti di potere

Questo obbiettivo è raggiungibile a partire, prima di tutto, dal rifiuto degli strumenti che tradizionalmente la storia mette a disposizione degli ambiziosi: potere militare, potere economico, potere culturale.

Nazionalismo, armi, denaro, lavoro, merci, ideologie politiche, religioni, scientismo, lingua, tecnologia. Questi fattori vengono oggi sfruttati dai protagonisti della storia come elementi competitivi nella corsa di tutti contro tutti. Tutti questi fattori: da quelli che appaiono intrinsecamente generatori di male, come il nazionalismo o le armi, a quelli di cui è più facile apprezzare dapprincipio i benefici, come lingua e tecnologia.

I risultati di tale approccio sono ogni giorno sotto i nostri occhi: la violenza sulla terra è pesante e apparentemente inestirpabile.
È un approccio da rifiutare a priori. Rende qualche uomo più felice, ma non più felici la maggior parte degli uomini.

Verso un nuovo metodo di conoscenza e di vita

Il popolo ultimo, ammaestrato dalle sofferenze patite, vuole disegnare e percorrere un nuovo metodo di conoscenza e di vita.
Adatto all’obbiettivo di farsi sale della terra. Adatto a questi tempi. Adatto all’uomo e alle sue possibilità.
Senza pretesa di organizzare a priori la realtà secondo criteri che il tempo dimostrerà inevitabilmente parziali o addirittura falsi. Dandosi invece semplici regole e verificandone sul campo la congruità. Se ci avvicineranno allo scopo andranno perfezionate e diffuse. Se ci allontaneranno dallo scopo andranno emendate e poi cancellate.

Si crea così un nuovo Decalogo. Realistico, “dolce”, e buono per il popolo ultimo in cerca di direzione. Un Decalogo da cui muovere per risalire la corrente della propria memoria e della storia.

1. Ascolta sempre l’altro e lascia che parli per primo
2. Non contrabbandare mai per verità la tua opinione
3. Rispetta il sentire comune della tua gente
4. Credi a quel che ti dicono solo dopo averlo verificato di persona
5. Guadagna quanto ti serve per vivere e toglierti qualche sfizio
6. Se sei uomo, coltiva la parte femminile che è in te
7. Se sei donna, coltiva la parte maschile che è in te
8. Credi col cuore alla tua possibilità di cambiare la terra
9. Ama e proteggi la vita degli uomini, degli animali e delle piante
10. Respira col mondo

sabato 7 novembre 2009

appunti per una teoria del popolo ultimo/1

Cosa è o chi è un popolo ultimo?

Un popolo ultimo è un popolo perdutosi tra le pieghe della storia fino quasi a diventare invisibile.

Non è un popolo privo di storia. È un popolo che ha perso le sue battaglie - militari, sociali, economiche, culturali - e non compare quindi nei libri di storia scritti da chi, quelle battaglie, le ha vinte.
Nel migliore dei casi è un popolo che mantiene consapevolezza di sé grazie al retaggio degli avi, tramandato innanzitutto con la lingua. Nel peggiore dei casi è un popolo che assimila tutto ciò che viene dai vincitori, a cominciare proprio dalla lingua. Con il rischio di farsi sommergere e diventare altro da sé.

Quest’ultima evenienza chiude il cerchio. Il popolo è ultimo perché privo di memoria: privo di memoria di se stesso e, conseguentemente, privo di “nome” presso gli altri popoli. È un popolo che a tal punto si riflette negli usi e costumi dei vincitori da marchiare con il loro brand anche le sue migliori realizzazioni. E da viverne le sconfitte come proprie sconfitte.

Quali obbiettivi deve porsi un popolo ultimo?

Primo obbiettivo del popolo ultimo è recuperare memoria di sé.

Attraverso il ripristino della memoria di sé, il popolo ultimo restituisce consapevolezza, dignità e soprattutto autonomia alla propria azione. Arrivando a comprendere che i suoi bisogni e interessi sono diversi da bisogni e interessi dei popoli vincitori. E agendo di conseguenza per tutelare se stesso. Il popolo ultimo torna in questo modo ad essere popolo visibile tra altri popoli visibili, popolo cittadino del mondo tra altri popoli cittadini del mondo, popolo di fratelli fratello ad altri popoli.

Ha senso porre come obbiettivo finale del popolo ultimo il suo primeggiare su altri popoli?
No, non ha senso. Significherebbe tornare alla logica vincitore/vinto, logica di prevaricazione e assimilazione.

Obbiettivo finale del popolo ultimo è farsi sale della terra.
Proporre cioè agli altri popoli una propria e originale visione del mondo e dei rapporti tra esseri viventi. Mostrare agli altri popoli la propria strada perché ne traggano, se vogliono e in totale autonomia, gli insegnamenti che preferiscono. Diventare fermento salutare, perché solo in questo modo il proprio sviluppo si traduce in sviluppo di tutti. In poche parole: restituire in bene al mondo ciò che dal mondo si è ricevuto in male.

giovedì 5 novembre 2009

appunti per una scrittura morale

La scrittura morale è una scrittura che, prima di tutto, si interessa profondamente ai costumi dei suoi personaggi, ai loro usi, ai loro comportamenti, dandosi l’obbiettivo di descriverli e di illustrarne gli effetti.

La scrittura morale non si pone il problema di giudicare cosa è bene o male nei costumi dei suoi personaggi, cosa è giusto e cosa è sbagliato. Convinta che la scelta morale attenga alla sfera della coscienza individuale, rispetta il comportamento del personaggio e non esprime una valutazione su di esso.

La scrittura morale non ignora le categorie del bene e del male. Sa che la predilezione per un certo argomento o per determinati personaggi è essa stessa frutto di una scelta morale, prerogativa dell’autore. È anche pienamente consapevole del suo essere strumento etico nei confronti del pubblico, presso il quale veicola storia e personaggi. Limita però il più possibile la portata di questi fattori, con due obbiettivi. Lasciare ai personaggi la libertà di muoversi a piacimento sulla pagina, scegliendo di pensare, dire e fare ciò che sembra loro più giusto. E lasciare al lettore la più ampia libertà di giudicare il comportamento dei personaggi, secondo i propri criteri.

La scrittura morale “sta” letteralmente sulla spalla dei personaggi, per seguirne l’azione. Limita le incursioni nel loro cuore e nella loro mente per limitare l’influenza che su di essi gioca l’autore. E descrive con agio l’ambiente in cui i personaggi agiscono. Scopo di questi criteri è portare la realtà ad emersione, con forza e chiarezza di dettaglio. Per tutto ciò la scrittura morale è una scrittura neutrale, ma non neutra e non semplicemente documentaria.

La scrittura morale ha come obbiettivo finale costringere il lettore a riflettere sui problemi relativi alla condotta dell’uomo e del suo mondo. Senza porgergli un’interpretazione preconfezionata di ciò che ha letto. Ed evitando di suggerirgli valori e metro di giudizio, inevitabilmente dell’autore e non suoi. Il lettore è dunque il protagonista ultimo e più importante della scrittura morale.

mercoledì 4 novembre 2009

Il sacro, il tango e il crocifisso

Ci risiamo. Ogni volta che viene sollevata la questione della presenza dei crocifissi nei luoghi pubblici - in particolare nelle scuole - i giornalisti si scatenano. A tutti si chiede un parere: politici, intellettuali, uomini di chiesa, gente comune. Quasi sempre la risposta a proposito del "crocifisso sì, crocifisso no" viene dalla rivendicazione di un'appartenenza. "Io ci tengo alle nostre radici cristiane!", afferma uno. "Io voglio un'Italia laica", rivendica un altro. E così via.

Difficile che ci si interroghi davvero sul simbolo in questione, sia da una parte che dall'altra. E se si accenna a una riflessione - lo fanno soprattutto quelli del "sì" - gli esiti sono un po' incerti: "è il simbolo dell'amore, dell'amicizia, della disponibilità agli altri" (tutte sentite davvero).

E io mi domando: ma davvero è così ovvio che un giovane uomo quasi nudo appeso a una croce e morto sia il simbolo dell'amore, dell'amicizia o della disponibilità agli altri?
Tentando di guardarlo con occhio disincantato, e non necessariamente dissacratore (del resto questo non lo fa quasi nessuno), direi che bisognerebbe piuttosto dire che il crocifisso è il simbolo della fine che si fa a cercare di essere troppo generosi nell'amore, troppo fedeli nell'amicizia, troppo disponibili.
Insomma: la manifestazione visibile di quanto è duro il mondo e crudele il cuore degli uomini.

Il Cristo, infatti, lì è proprio un "povero Cristo", e chi sulla croce ce lo ha messo ha vinto, come sempre vincono, nella storia e in ogni epoca, i cattivi. E' questo che si vuole insegnare ai ragazzi? Si tratterebbe di una lezione molto realistica e concreta, lo riconosco. Ma per non essere rinunciataria e scoraggiante dovremmo allora caricarla del sapore di una denuncia. Tipo: "Esponendo il crocifisso ci dichiariamo dalla parte di chi subisce il torto, l'ingiustizia, la sopraffazione!".
Allora è questo che vogliamo dire? E se sì, che c'entra il politico leghista che prima vota in Parlamento leggi che rendano il più possibile dura la vita degli immigrati, anche quelli onesti, e poi si proclama appartenente alla cultura cattolica occidentale?

Ma veniamo ai cristiani. E' evidente per loro che il crocifisso vuol dire qualcosa non solo come celebrazione dell'eroismo di una morte innocente. Se ha senso una fede nel Dio di Gesù Cristo questo sta nella speranza che il Padre vince, libera dalla morte il Figlio, il giusto. E così - meraviglia! - riapre una speranza di redenzione non solo per le vittime, ma anche per i carnefici.
E' questo che il crocifisso riesce a dire semplicemente appendendolo al muro?

Non mi dilungo. Nel campo del sacro io sono per il tango, cioè per il movimento, e non per ciò che è statico (vedi, in questo blog, il mio intervento intitolato "il sacro e il tango/1). In questo caso: io sono cristiano, ma proprio come tale sento la necessità che tra morte e risurrezione si riequilibrino le parti - come Nuovo Testamento vorrebbe: due movimenti di una stessa vittoria. Movimenti, appunto. Non una cosa così ferma - in quanto antica e intangibile tradizione -  che a malapena si trova qualcuno disposta a spiegarla davvero e poi a viverla.

Ed ecco la proposta: decidiamo eccome se toglierli o tenerli, i crocifissi nelle scuole. E decidiamo, direi, laicamente. Ma comunque, consapevoli tutti - laici, laicisti, credenti, tutti - dell'importanza storica del simbolo in questione, procediamo dopo aver fatto insieme una bella riflessione: sappiamo cosa vuol dire quel segno (o cosa "voleva dire", se, come sembra, lo abbiamo dimenticato)? Quale simbolo unificante metteremmo al suo posto, visto che un'identità comune, anche minima, sarebbe meglio averla? E se credenti: davvero ci è rimasto solo il crocifisso, da difendere, e vogliamo lasciare che a dire la nostra smisurata speranza resti sola la croce?