domenica 28 novembre 2010

Il druidismo ottiene nel Regno Unito il riconoscimento dello Stato

La Charity Commission è l'organo governativo britannico che si occupa dei rapporti con le religioni. Recentemente ha adottato una decisione che ha suscitato parecchio clamore nel Regno Unito e alla quale hanno dato risalto i media di tutto il mondo. Dopo un'indagine durata quattro anni, l'ente londinese ha offerto al druidismo la dignità di religione ufficialmente riconosciuta dallo Stato.

Il provvedimento avrà immediati riflessi economici. La decisione consentirà infatti ai seguaci delle antiche pratiche celtiche, tuttora molto seguite nelle isole britanniche, di ottenere consistenti sgravi fiscali, dato che il lavoro di promozione del druidismo è stato riconosciuto come attività di pubblico interesse nazionale.

Ma è ovvio che le maggiori ripercussioni di questo evento si avranno sul piano culturale. La Charity Commission ha ammesso che il druidismo è la più antica forma di religione di cui si abbia memoria Oltremanica e lo ha definitto "un insieme di pratiche coerenti e strutturate per l'adorazione di un essere supremo", aggiungendo che queste pratiche "sortiscono un impatto morale benefico sulla comunità dei fedeli". Ha sdoganato quindi, a livello ufficiale, l'adorazione degli spiriti di fiumi e montagne, la celebrazione di rituali legati all'alternarsi delle stagioni, e quel rapporto strettissimo tra uomo e natura che caratterizzava molte pratiche religiose precristiane.

Dunque l'Europa riscopre, dopo duemila anni, di essere stata un tempo pagana.
Ammette di non avere mai smesso di esserlo.
Reintroduce, attraverso il circuito alto delle decisioni governative, i riconoscimenti ufficiali e gli incentivi economici che tanto bene fanno alla libertà di scelta religiosa.

In definitiva, una buona notizia per tutti.

domenica 21 novembre 2010

Bambini scrittori 1

Sono tornato alla scuola elementare, ma i bambini stessi ora la chiamano "primaria" e a me sembra che il linguaggio della burocrazia sia penetrato nelle loro fragili menti. "Elementari" suggeriva l'idea di una scuola giustamente più facile, per i piccoli, e volendo diceva anche che proprio lì si imparavano gli "elementi fondamentali" del sapere e del saper imparare (il famoso leggere, scrivere e far di conto).
Comunque. Invitato da una brava insegnante, ho preparato e sto volentieri proponendo un nuovo laboratorio di scrittura per i bambini. Lo descriverò in due o tre puntate.

Questa volta siamo in quinta. Con il gioco del "quezùl" - ricordate? No? Allora andate a rileggere due miei post di qualche mese fa... - eravamo in seconda.

Entro in classe appena suona la campana di inizio lezioni, trascinandomi dietro due grosse valigie. In testa ho un elegante cappello con una penna infilata sopra.
Comincio a parlare ai bambini in inglese e parlo in fretta. Il mio inglese non è fluente, ma ho preparato bene un discorsetto che dice: "Buongiorno, ragazzi! Sono Luke Cripe, scrittore inglese. Sono appena arrivato dall'aeroporto di Malpensa. Mi ha chiamato la vostra maestra, al telefono, perché vuole che vi insegni come si fa a fare gli scrittori...". Entra un ragazzino in ritardo, gli dico che è tardi, sempre in inglese, mi presento stringendogli la mano, chiedo come si chiama. I compagni ridono, anche perché capiscono abbastanza inglese da sapere che sto davvero parlando in questa lingua ("wath's your name?), ma non abbastanza da capire tutto quello che dico ("It's too late..."!).

Dopo un po', quando il mio discorso si fa sempre più complicato, faccio finta di accorgermi che non capiscono. Non parlano inglese? Allora ho la soluzione. Apro una delle valigie e tiro fuori un foglio con disegnato al centro un piccolo cerchio rosso. Sopra c'è una scritta in inglese: "Push the botton and choose the language". E sotto c'è una scritta in italiano: "premi il pulsante e scegli la lingua".
Mi avvicino a un ragazzino della prima fila, gli infilo la penna sopra l'orecchio (ora è lui, lo scrittore) e lo invito ad eseguire l'ordine. Quello preme il pulsante, appoggiato alla mia pancia... e io improvvisamente comincio a parlare in italiano.
Se si fa bene, l'effetto è comico e i ragazzini sono ben disposti a darti retta per i primi minuti successivi.

Bene, a questo punto parliamo in italiano e ci capiamo!
Il primo strumento di uno scrittore è la lingua, e noi, per fortuna, ne abbiamo una. E anche molto bella.
Conoscete l'italiano? Si? Siete sicuri?
Dalla valigia estraggo un grosso vocabolario. Lì, spiego, ci sono migliaia di parole. Le sappiamo tutte? I ragazzi non sono sicuri. Allora li provoco: "cosa vuol dire 'pusillanime'? E 'inane'? cosa vuol dire 'truculento'? e 'sperequazione"?
Non conoscono il significato di nessuna di queste parole.

A questo punto faccio capire, con gli esempi giusti, che se voglio spiegare il significato di "truculento" e "sperequazione" devo raccontare, di fatto, una storia. Magari breve, ma deve essere una storia, un fatterello il cui protagonista è un tipo truculento o nella quale avviene una ingiusta distribuzione di caramelle tra bambini con gli stessi diritti di riceverne in parti uguali.
Dunque le storie sono fatte con le parole, ma le parole acquistano significato nelle storie.
E c'è di più: le parole hanno una storia. Il dizionario ne contiene migliaia che noi non usiamo più (tipo "codesto") e si arricchisce ogni anno di parole nuove, che i nostri nonni non usavano (tipo "chattare"). Ecco perché é così voluminoso (a proposito: cosa vuol dire "voluminoso"?).

Bene. Ora abbiamo capito di avere una lingua, che è viva e alla costruzione della quale partecipiamo non solo con le storie che possiamo inventare e raccontare, ma con la nostra storia personale (chi sarà che avrà definito per la prima volta un tizio "truculento"? E cosa gli sarà accaduto o cosa avrà visto per arrivare a dire così e non semplicemente "violento" o "cattivo"?).

Con una lingua, una penna e un foglio bianco possiamo cominciare a scrivere. E qual è il passo successivo?
Lo scoprirete alla prossima puntata.



domenica 14 novembre 2010

Come fare soldi (e tanti) con Mussolini

Chi conosce un poco il mondo editoriale italiano sa chi è Elisabetta Sgarbi.
Elisabetta Sgarbi è il direttore editoriale della Bompiani. Scrittrice a sua volta, critica d'arte e cinematografica, regista cinematografica, è una delle personalità più influenti della cultura di questo Paese.

Qualche tempo fa, ho seguito una sua lunga intervista sulla questione dei diari di Mussolini, che la Bompiani si apprestava a mandare in libreria. La Sgarbi, pressata da un giornalista per niente accondiscendente come Giuseppe Cruciani di Radio 24, asseriva di non essere affatto certa dell'autenticità dei diari e che comunque non si trattava per lei di un punto dirimente. Davanti allo stupore e all'insistenza dell'intervistatore, si inalberava e rilanciava affermando che - veri o no - la Bompiani avrebbe pubblicato i manoscritti con il titolo I diari di Mussolini. E rifiutava di ammettere che ciò sarebbe equivalso a ingannare o quanto meno spingere il lettore su una strada equivoca.

La Sgarbi è una gran dama e ha mandato alle stampe negli anni libri di valore straordinario, tanto in saggistica quanto in narrativa. Io lo so e anche Cruciani lo sa. Ecco perché il giornalista, chiuso il tempestoso collegamento, ipotizzava quel giorno che la Sgarbi fosse stata costretta a digerire un'operazione di puro mercato, alla quale personalmente doveva essere contraria. Ipotesi benevola ma verosimile.

Ebbene, in questi giorni I diari di Mussolini sono finalmente arrivati in libreria e proprio con tale titolo. Contrariamente a quanto detto dalla Sgarbi in radio, hanno però un sottotitolo. Il sottotitolo, in piccolo e tra parentesi, è (Veri o presunti). Ce n'è abbastanza per rimanere di sale.

Un tempo la Bompiani, e ogni altra seria casa editrice, avrebbe fatto una scelta di campo netta. Avrebbe preso per veri i manoscritti, pubblicandoli come i diari del Duce, senza alcun sottotitolo. O li avrebbe giudicati un falso, rinunciando alla pubblicazione. Ecco che invece oggi si sceglie volutamente di restare a metà del guado. L'imperativo è monetizzare a tutti i costi: e niente promette una monetizzazione più efficace e penetrante del capo del fascismo. Quanto al sottotitolo, lo si utilizza come foglia di fico che lava la coscienza davanti a storici e pubblico più smaliziato. L'operazione di mercato è smaccata, tanto smaccata che lo si dichiara in copertina. Forse la Sgarbi l'ha subita, forse no. Certo, appare troppo comodo scaricare il giudizio finale sul lettore, al quale nel frattempo vengono scuciti 21,50 euro. Inoltre, questo è solo l'inizio. Il volume in libreria è infatti il (vero o presunto) diario mussoliniano del 1939. Ne seguiranno altri quattro. Fate un po' voi i conti.

domenica 7 novembre 2010

Ma cosa augurare agli sposi se non "buon matrimonio"?

Mai io e il mio socio, coautore e amico abbiamo discusso su questo blog intervenendo l'uno su un testo dell'altro. Ma questa volta non posso trattenermi, anche perché dicendo la mia sul post precedente a questo, che farete quindi meglio a leggere prima di proseguire, spero anch'io di stimolare i lettori a un intervento.

Dunque. Due persone che il mio amico stima abbastanza si sposano. Lui plaude agli sposi ma non si sente di augurare loro... niente di ciò che essi desiderano. Insomma, prima di sottoporre il matrimonio come "istituto giuridico" (accidenti, che freddezza!) a un'analisi antropologico-cultural-psicologico-statistica bisognerebbe almeno chiedersi perché tanti milioni di uomini e donne nel mondo si ostinano, semplicemente, a desiderarlo.

Non ho detto che tanti uomini e donne ci riescono, a viverlo con soddisfazione: di questo parliamo dopo. Dico che sono in tanti a desiderarlo. Oggi lo vogliono anche molti omosessuali, e in quei Paesi in cui ottengono questo tipo di riconoscimento festeggiano pure.
Il mio amico non ignora questo aspetto del problema: infatti, invece che augurare ai suoi conoscenti di riuscire nel loro intento suggerisce che dovrebbero essere prudenti, che dovrebbero imparare la lezione dalle loro esperienze negative. Ricorda anche la loro età: insomma, basta con questi sogni da adolescenti!

Non manca anche l'argomento pseudo-scientifico: l'uomo, in definitiva è un animale (cosa assolutamente certa) come gli altri (cosa assolutamente sciocca: anche il leone non è la scimmia, perché l'uomo non dovrebbe essere - come è, infatti - un animale con le sue specifiche caratteristiche?).
Insomma: è sbagliato desiderare, ed è sbagliato, desiderando, sbagliare. Ma queste cose sono tipicamente umane!

Dopodiché le statistiche, e soprattutto i racconti pieni di delusione, sofferenza, solitudine, orgoglio ferito, disinganno... e a volte sollievo di tanti separati e divorziati li conosco benissimo. Ma conosco anche la vita di tante persone come me, che il matrimonio lo vivono benissimo.
Eh sì, io il matrimonio l'ho desiderato, insieme alla mia fidanzata, Rita, una ragazza che, la prima volta che l'ho vista mi sono detto: "ma allora esiste davvero!". Per stare con Rita ne ho fatte di tutti i colori, e anche lei si è impegnata parecchio. Eravamo e siamo così innamorati che non avremmo accettato di vivere in nessun altro modo che da... sposati. E dopo 15 anni è ancora così.
Ma che vuol dire tutto questo? Vuol dire che quando le ho detto per la prima volta "ti amo" intendevo quel che significano queste parole: "ti voglio nella mia vita, oggi e se possibile anche domani". Vuol dire che quando ami non ne metti via un po', giorno per giorno, fino a raggiungere una quota di amore donato raggiunta la quale puoi dire: "Ecco, ce l'ho fatta! Anche questa è finita".
L'amore non si accumula: ne vuole sempre di più, quindi ne vuole per domani e per domani l'altro. Infatti, appena questo slancio si affievolisce, subito si teme di non poter andare avanti, che è esattamente ciò che l'innamorato vuole. E allora o si corre ai ripari, o si comincia a distaccarsi, cosa che capita, lo so, a moltissimi.

Cosa che potrebbe capitare anche a me e a Rita. Ma per come mi sento, oggi, spero proprio che chi mi vuole bene - anche il mio caro amico Maurizio - faccia il tifo per noi e ci dica, di cuore: "Viva gli sposi! Viva il matrimonio!".

Concludo con due osservazioni:
1. Non so bene perché, ma ho in famiglia, tra gli amici e tra i conoscenti, sempre più coppie che convivono per anni e poi si sposano. Non so bene perché, ma quando poi li incontro - dopo un anno, due ecc. - mi dicono: "Sono sicuro/a: sposati è diverso".
2. Pur essendo sempre più un credente, non ho citato, fin qui, né il buon Dio, né la Chiesa, né lo Stato. Nel vangelo di Giovanni si dice che un giorno due sposi invitarono (loro, non lui) Gesù al loro matrimonio. Gesù non aveva ancora cominciato la sua missione, la sua predicazione, il suo insegnamento. Il matrimonio c'era già. Succede anche oggi: quando si comincia a ragionare di "matrimonio cristiano", di "spiritualità degli sposi" e di altre attenzioni che, lo capisco benissimo, per i non credenti sono amenità, il desiderio di amore per sempre c'è già. E' scritto ancora negli SMS degli innamorati adolescenti.
Insomma: è una cosa laicissima, originaria... e bella. Perché nella vita il bello è provarci, se no che vita è?

Viva gli sposi! Anche perché, lo dico sempre: ne hanno bisogno.