lunedì 25 gennaio 2010

mia madre e il vecchio mondo

La morte di mia madre, avvenuta il 4 gennaio, mi colpisce per tanti motivi. Eccone uno molto particolare.

Mia madre nasce nel 1935 e cessa di vivere a settantacinque anni. Di ottima famiglia, cresce insieme alle tre sorelle sotto l’ala protettrice dei genitori. Terminate le magistrali smette di studiare, preparandosi al matrimonio. E a ventisei anni convola a nozze con mio padre. In poche parole, passa direttamente dalla potestà paterna a quella maritale, che rispetta per il mezzo secolo successivo. Non sperimenta mai un giorno di completa indipendenza. Non lavora mai nemmeno un’ora. A tutto provvede mio padre, e a lei va bene così. Di carattere autoritario, in casa è abituata a farsi obbedire. All’esterno perde l’orientamento e per qualsiasi bisogno, fosse pure la carta più semplice, si affida al marito. All’occorrenza, sa cavarsela da sola. Tra il ’69 e il ’70, mio padre passa un anno in sanatorio per la tubercolosi e lei manda avanti la famiglia con bravura. Ma è uno stato eccezionale, non la norma. La norma è questa: lei si occupa della casa, lui del sostentamento coniugale e filiale.

Molte, se non quasi tutte le donne della generazione di mia madre, hanno vissuto in questa maniera. Specie nelle terre dalle quali vengo e nel meridione d’Italia. L’emancipazione della figura femminile è maturata dopo, per chi aveva meno anni. Per la donna che nasce nel 1935 vivere sotto tutela è fatto ordinario.

Più della globalizzazione, più dei voli low cost e del turismo di massa. Più dell’i-Pod e dei netbook, della televisione satellitare e dei crack finanziari planetari. Più del mio divorzio e della mia mobilità lavorativa. Più di tutto questo, la morte di mia madre segna per me la fine del vecchio mondo e il passaggio al nuovo. Con lei vedo sparire l’ultimo pezzo della società che mi ha generato, e che ormai non c’è più.

Mia madre ha mal tollerato il mondo e le sue evoluzioni negli ultimi venti anni. Non capiva perché nessuno volesse più obbedirle. E perché nessuno si attenesse più alle poche e salde regole che avevano guidato la sua esistenza. Questo disagio, questa cattiva sopportazione confermano la voce popolare. È difficile cavalcare l’onda dei propri tempi. Ma ancora più difficile, se non impossibile, è entrare in sintonia con chi ci precede e con chi viene dopo di noi. Il tempo concessoci per seminare del buono è breve. Non buttiamolo al vento.

venerdì 22 gennaio 2010

Un film da non perdere

Il nuovo film dei fratelli Coen si intitola A Serious Man ed è uno spettacolo da non perdere. Se si ha un minimo di pazienza e di volontà di stare al gioco - si comincia con un antefatto di dieci minuti in lingua yiddish ambientato in un villaggio di ebrei nella Polonia dell'ottocento... - è impossibile non divertirsi per una provocazione tanto arguta e intelligente.
Il protagonista è un professore di matematica ebreo di mezza età, un uomo molto sfortunato, di quelli che subiscono rovesci della sorte e abusi del prossimo con identica passiva fiducia nel fatto che prima o poi tutto si aggiusterà e il giusto senso della vita si ristabilirà da sé.

Quando le cose si mettono davvero male per il nostro solerte e onesto insegnante (la moglie vuole lasciarlo per un vedovo, i figli sono in tutto identici agli adolescenti superficiali e nevrotici di qualsiasi altra famiglia, il fratello è un pazzo senza mezzi che vive alle sue spalle e intanto cerca fortuna nel gioco d'azzardo...) tutti, anche quelli che non sembrano credere più di tanto in Dio, gli consigliano di consultarsi con un bravo rabbino, che saprà confortarlo e orientarlo secondo la volontà dell'Onnipotente. Lui ne consulta tre, ottenendo risposte davvero spiazzanti alle sue domande...

Ora però mi fermo qui. Odio le recensioni in cui ti raccontano la trama. Mi limito a segnalare a chi mi legge che se vuole fare un passo avanti nella ricerca della risposta alla domande: ma Dio esiste? E se esiste, come comprendere la sua volontà e vivere in pace con lui e con noi stessi, certi di far parte di un disegno della Provvidenza? bisogna che veda questo film.

Lasciatevi prendere, questo è il consiglio, dall'apparente leggerezza con cui gli autori del film trattano delle domande più grandi dell'umanità. Ma lasciatevi anche interrogare. C'è una lezione importante, da gustare con mente aperta e cuore sensibile.
Buona visione, e se c'è qualcuno che, una volta visto il film, vuole avere da me un parere teologico sulla vicenda narrata, sarò felicissimo di dialogare con lui.

A SERIOUS MAN

di Joel e Ethan Coen


mercoledì 13 gennaio 2010

Meno latino, meno male?

La riforma della scuola superiore - licei, istituti tecnici... - è nell'aria, tra mille esitazioni e un iter parlamentare costretto a lasciare il passo a questioni urgenti, cioè a processi più o meno brevi.
E mentre i genitori dei ragazzi in terza media non sanno ancora a quale istituto pre-iscrivere i figli, si diffondono voci sulle novità pensate dal ministro Gelmini e dai suoi consulenti. Se ne parla, tra adulti, e mi capita di intercettare pareri come questi: "Faranno meno latino ai licei. Meno male: è proprio inutile!"; "Meno filosofia. Era ora: a che serve?"; "Finalmente hanno capito che ci vuole più inglese. E' quel che ci vuole per trovare lavoro!".

Sembra che studiare abbia come unico scopo la ricerca del lavoro e quindi il raggiungimento della migliore preparazione per assumere incarichi in un'azienda e fare carriera. Se fosse così, ci vorrebbero davvero più ore di inglese, matematica, informatica e meno di letteratura, storia, filosofia, arte e latino.
Non riesco ad adeguarmi a questa mentalità. E non per nostalgia del passato (io ho fatto il "vecchio" liceo classico).

Io penso che studiare serva a un uomo non solo per trovare un lavoro e crescere nella sua professione, ma anche per trovare le parole giuste per esprimere i propri sentimenti. Penso che sia importante sapersi servire di un computer, ma anche capire, con un pizzico di elasticità mentale, cosa agita l'animo di un figlio adolescente. Credo che per scegliere il candidato migliore in una elezione bisogna saper leggere tra le righe delle sue promesse e dei suoi slogan. E per valutare le complesse conseguenze dell'inserimento nella nostra società di persone provenienti dall'Africa, dall'America Latina e dall'Asia bisogna sapere chi siamo e quali sono gli strumenti giusti per conoscere, valutare e apprezzare una cultura, una fede religiosa, una sensibilità diverse dalle nostre.

Un uomo o una donna molto efficienti nel loro lavoro, ma che poi non sanno dare qualità al proprio tempo libero, chiarezza ai propri sentimenti, ordine ai propri obiettivi, sapore alle proprie relazioni, mi sembrano comunque più poveri anche se il loro stipendio cresce continuamente.