sabato 30 ottobre 2010

Viva gli sposi! Abbasso il matrimonio!

Oggi io e Natalia, la mia compagna, siamo stati a un matrimonio.
Si sono sposati due nostri vicini di casa. Due persone molto simpatiche e buone, un po' avanti con gli anni. Lei ne ha 57, lui 69. Entrambi già sposati in passato, con esiti infausti.
Mentre questa mattina mi passavano accanto, in giardino, ho detto: "Viva gli sposi! Abbasso il matrimonio!". L'ho detto, non gridato. Ma nemmeno a mezza voce, non così piano, perlomeno, da non essere udito dalla coppia. Loro due, infatti, mi hanno sentito e si sono messi a ridere.

Quella frase esprimeva in pieno il mio sentimento del momento.
Empatia per gli sposi, cui sono molto vicino, e avversione per il legame giuridico-istituzionale che si stava per creare.
Ma non ero così sicuro che tale mia percezione fosse condivisa o addirittura comprensibile ad altri e per questo non l'ho proclamata a voce troppo alta.
A dire il vero, io stesso fatico a mettere a fuoco la questione.

Tralascio il precedente fallimento matrimoniale dei nostri amici. Già agli atti, con il suo carico di dolorose esperienze, avrebbe dovuto indurli a maggiore prudenza. Ma non è questo il punto centrale.

Il punto centrale è un altro.
L'uomo per natura non è monogamo.
Non ce ne offrono abbondanti testimonianze solo la cronaca, le indagini sociologiche o le nostre personali conoscenze. Ce ne dà prova anche la scienza. Nel mondo animale lo scambio di coppia è norma generalizzata.
L'uomo invece si sforza di essere monogamo.

Per cause religiose, economiche e giuridiche ha creato il matrimonio, istituzionalizzando il legame tra individui di sesso diverso. Queste cause sono tante e vanno dall'esigenza di trasmettere e conservare il patrimonio nell'ambito della stessa stirpe alla necessità di imporre una morale più rigida, univoca e quindi controllabile al complesso nucleo delle società urbane. Proprio per tali motivi e tali fini si è anche preteso di aggiungere al contratto matrimoniale la clausola della monogamia.
Trasformando insomma tutta la faccenda in una questione culturale.
Ed è proprio ciò che non capisco.

Molte delle cause e degli scopi che sottostanno al matrimonio oggi sono venuti meno. Viviamo in una società che amplia quasi a dismisura i limiti delle libertà individuali, accetta comportamenti e abitudini fino a poco tempo fa inammissibili, tutela i diritti di chi vive o nasce nel matrimonio e fuori dal matrimonio.

E allora chiedo: perché molti uomini e donne si ostinano a creare un legame che li impegna vita natural durante? Quando mai è saggio prendere un impegno che non si è sicuri di poter assolvere? E in più: perché nello sposarsi si obbligano alla fedeltà? Qui si va addirittura contro natura.

Qualsiasi ragionevole risposta a tali dubbi è benvenuta.

domenica 24 ottobre 2010

Perché raccontare storie

Ieri pomeriggio ho tenuto ben volentieri una presentazione del nostro ultimo romanzo in una piccola, bella e attiva libreria di Saronno. Definisco comunque "romanzo" il nostro Io ti aspetto anche se, come ho spiegato durante l'incontro, si tratta per la precisione di una docu-fiction: la storia che viene raccontata è vera, ma si legge, appunto, come fosse un'opera di fantasia.

Qualcuno potrebbe domandarsi: ma se la storia che presentate è vera e per scriverla intervistate i protagonisti, raccogliete informazioni e documenti, studiate l'ambiente in cui hanno vissuto le loro vicende... che differenza c'è rispetto a un'inchiesta giornalistica? E soprattutto: cosa ci guadagna il lettore dal leggere una versione romanzata di un fatto vero?

La domanda è emersa durante la presentazione e per rispondere non ho potuto fare a meno di riflettere sull'attualità. Prendete il recente dramma dell'omicidio di Sara. Non ho nessun bisogno di dire altro, per evocare il fatto, i protagonisti, l'ambiente, luoghi, orari e mille altri particolari serviti al pubblico a tutte le ore del giorno e della notte da televisioni, internet e giornali.
Ma riflettiamo: dopo che abbiamo seguito (se proprio ci teniamo, ma sembra che siano in milioni ad appassionarsi a queste vicende) maratone televisive di ore e ore, con servizi, pareri di esperti, dibattiti e approfondimenti cosa manca? Cosa manca davvero?
Manca la cosa che solo uno scrittore può tentare e che è bene che uno scrittore tenti, per il bene di tutti: cercare di immedesimarci nei protagonisti, piuttosto che giudicarli.
Il giornalista, infatti, cerca di impressionare lo spettatore scovando particolari inediti, e se non ne trova li suggerisce: "Lui dice di aver violentato la ragazza, anzi: il suo cadavere!", "Lei prima si diceva amica della cugina, ora si scopre che la odiava, ecco le prove!" e via dicendo. Il pubblico inorridisce, si stupisce, disapprova, condanna, fa paragoni tra la propria vita e la qualità delle proprie relazioni e questo spettacolo bestiale...
Ma chi tenta veramente di capire? E cosa vuol dire davvero "capire"?

Lo scrittore viene dopo il giornalista, dopo l'espertone e le sue frequenti banalità, dopo gli investigatori, dopo i giudici. Lo scrittore arriva quando le acque si sono calmate, che per noi significa quasi sempre quando la storia è dimenticata. E a questo punto lo scrittore tenta di raccontare e raccontare è il più antico, il più umano, il più profondo... il più sacro degli strumenti di comprensione a disposizione del genere umano. E questo perché per raccontare bisogna almeno tentare di immedesimarsi nel protagonista. E perché il lettore segue davvero il racconto solo se accetta di immedesimarsi nel protagonista.

Certamente si può banalizzare e forzare una vicenda umana anche raccontandola: si prende "il cattivo", gli si appiccicano un paio di caratteristiche odiose e gli si contrappone "la vittima", magari anch'essa ridotta a pochi tratti semplificatori. E il gioco è fatto.
Sì, il gioco è fatto: ma per fare una storia debole, superficiale. Per simili semplificazioni, possibili e infatti presenti sui banchi delle librerie, ricordo sempre la definizione di una poetessa, Janice Kulyk Keefer: "favole senza pane", cioè storie senza alcuna sostanza, senza nutrimento, aria che riempie lo stomaco di nausea.

Qui sta l'artista e qui sta il suo servizio all'umanità. Dopo che i riflettori sono stati spenti e spente le telecamere, chiusa la porta del carcere o lasciato libero (se è giusto farlo) un "presunto colpevole"... lo scrittore, paziente, racconta e suggerisce al lettore: "ma hai provato, una volta o l'altra, a immaginarti nei panni di un uomo in preda a una passione magnetica e devastante? Hai provato una rabbia incontenibile? Sai che è possibile che il tuo equilibrio vada in pezzi, che i tuoi vizi ti vincano, che i tuoi più inconfessabili desideri prendano il controllo su di te? Hai mai riflettuto davvero sugli effetti che i tuoi atteggiamenti hanno sul tuo prossimo?".
Leggere un buon romanzo serve a questo, fin dalla notte dei tempi: prima di giudicare, metterci alla prova con un "se io fossi". E lasciarci comunque al sicuro, nel letto, la sera, con in mano un innocuo libro.
Il guadagno di questa operazione? Il frutto più importante, il dono di cui, alla fine (ma se possibile anche in ogni momento della nostra vita...) avremo bisogno: la misericordia e l'ampiezza di sguardo, su noi, sugli altri, sul mondo, su tutto.

Perché se Dio non esiste, come molti pensano, bisogna ben che ci attrezziamo, se dobbiamo essere noi Dio, come quasi tutti siamo abituati a fare.


domenica 17 ottobre 2010

IRS e Lega Nord: che significa stare tra la gente?

Durante l’incontro bolognese dei simpatizzanti di iRS - indipendentzia Repubrica de Sardigna -, di cui ho già parlato, ho sentito più di una persona affermare che l’unica e vera somiglianza tra iRS e Lega Nord sta nella capacità di farsi presente sul territorio. Unica e vera, contro l’assai più frequente accostamento di iRS a Lega Nord a proposito di separatismo. Vorrei dunque soffermarmi su questo particolare e analizzarlo da vicino.


Negli ultimi quindici anni ho risieduto in tre centri diversi della provincia di Varese: Origgio, che ha circa settemila abitanti, Saronno, che ne conta quasi quarantamila, e Tradate, che ne ha poco meno di diciottomila. Per quel che ho visto, sono tutti paesi e città dalla forte economia e dai servizi efficienti. A Origgio il sindaco è il leghista Luca Panzeri, quarantacinquenne, al secondo mandato e rieletto nel marzo di quest’anno con il 38% di preferenze personali. A Tradate, dove vivo ora, il sindaco leghista Stefano Candiani è anch’egli un quarantacinquenne al secondo mandato: ha avuto alle elezioni del maggio 2007 oltre il 60% di preferenze personali. Una percentuale così elevata da spingermi a chiedere a più persone cosa trovassero in lui di particolarmente valido. Su un altro versante, è egualmente emblematico il caso di Saronno, dove la Lega è stata per ben dieci anni all’opposizione della giunta di centro-destra, senza per questo mostrare meno vigore o radicamento tra i cittadini. Dallo scorso giugno, caso più unico che raro, a Saronno il partito più forte è il PD, causa scissioni interne al PDL, e la Lega è ancora la voce d’opposizione più sonora. In tutti questi posti ho avuto modo di conoscere diversi votanti e amministratori leghisti, facendomi un’idea di cosa significhi per loro stare sul territorio.


Per i cittadini la capacità dei leghisti di stare sul territorio è incarnata prima di tutto dalla loro costante presenza fisica in piazza. Negli anni in cui ho abitato a Saronno, non passava domenica che i militanti della Lega non fossero agli angoli delle strade, per qualche raccolta di firme, per un comizio, per un concerto di musica folk, per la distribuzione del foglio di sezione. Ogni pretesto era buono per stare tra la gente. Che piovesse o facesse un caldo torrido, loro erano lì, con banchetti, gazebo e fazzoletti verdi al collo.

In secondo luogo, per i seguaci di Bossi avere un amministratore leghista significa contare su uno dei loro, anzi, su «uno di noi». A livello locale, non ci sono politici professionisti. Tutti gli eletti emergono dalla base, parlano la lingua della base, conservano le idee della base e mantengono il mestiere che gli dà da mangiare. Panzeri, a Origgio, è un operaio metallurgico, Candiani, a Tradate, è un industrialotto che produce packaging per cosmetici. In altre parole, c’è una identificazione quasi totale tra base e amministratori: la prima delega la propria fiducia ai secondi e sa di andare sul sicuro. Non teme cattive sorprese e non ne riceve. Ancora più precisamente: militanti e amministratori della Lega hanno una elevata e molto prosaica capacità di essere consonanti con i loro elettori. Tanto elevata da lasciare a bocca aperta.

Terzo elemento, e sia detto senza voler contribuire ad alcuna mitologia leghista. I militanti e gli amministratori della Lega nutrono e mostrano per la propria terra una passione profonda, largamente percepita da elettori e simpatizzanti. Tale passione è il loro primo interesse e motore d’azione ed è perciò che, al confronto, gli attivisti degli altri partiti sembrano vecchi mestieranti. Così si arriva al paradosso che la base della Lega Nord, partito di vita ormai pluridecennale, conserva un entusiasmo e una freschezza neppure mai acquisiti da chi sta in PD e PDL, partiti di nascita recentissima e che dovrebbero viaggiare su un abbrivio ben maggiore.

Questa passione genera l’ultimo dei fattori caratterizzanti lo stare sul territorio della Lega Nord. I suoi amministratori hanno un programma chiaro e limitato, che difendono con i denti: realizzare la volontà dei loro elettori, senza guardare in faccia nessuno. A tale fine strategico ho visto negli anni gli amministratori leghisti sacrificare molto: hanno rinunciato ad alleanze che sembravano immarcescibili o, al contrario, hanno accettato di legarsi a personaggi che poco hanno a che spartire con le idee di Bossi. Da questo punto di vista, nonostante il peso notevole della Lega sul piano nazionale, il Carroccio è rimasto una formazione essenzialmente locale: il municipio, la provincia e la regione vengono, ai rispettivi livelli amministrativi, prima di ogni altra cosa. Tale tattica e tale pertinace difesa degli interessi del circondario pagano: la gente di qui vota Lega Nord in massa.


Non conosco ancora abbastanza iRS e la sua azione per valutare sulla base di questi elementi quanta somiglianza ci sia tra lo stare tra la gente di leghisti e indipendentisti sardi. Voglio invece mettere in rilievo cosa trovo di inadeguato in tale paragone.

Non so se la Lega sia nata e cresciuta intercettando un malessere già presente nel popolo del Nord o se sia stata particolarmente abile nel suscitarlo e cavalcarlo. Fatto sta che l’ordine del giorno dei leghisti si è composto nel tempo mettendo in fila tutto ciò che qui nel settentrione non va bene e dandone la responsabilità a Roma. La capacità dei leghisti di percepire la “pancia” degli elettori ha permesso loro di crescere nei consensi, ma solo per portare avanti prima di tutto battaglie di chiusura e opposizione, né di apertura né propositive. Essere presenti sul territorio, a queste condizioni, è forse perfino troppo comodo.


I leghisti sono nazionalisti, al punto da avere inventato una nazione che non c’è e scagliarsi contro le altre nazioni: prima i terroni, poi gli extracomunitari. I leghisti sono spesso violenti nella lingua e nei sentimenti, da Bossi in giù, e alimentano così uno spirito pubblico di scontro. I leghisti rimarcano continuamente i torti subiti da Roma e sono nei confronti della capitale apertamente rivendicazionisti. La difesa degli interessi locali non è mai inclusiva, ma escludente e in definitiva impoverente, così come la passione per la propria terra. La base del partito nutre sentimenti analoghi ed è su tale direttrice che si chiude, nel segreto dell’urna, il circuito elettore-amministratore leghista.


IRS - nei suoi principi - non è niente di tutto questo ed è perciò che, a mio parere, lo stare tra la gente di iRS sarà profondamente diverso e più difficile di quello leghista. IRS non promette l’indipendenza come panacea di tutti i mali della Sardegna, ma si propone di contribuire a risolvere quei mali prima dell’indipendenza. Non vuole l’indipendenza contro qualcuno, ma per i sardi e per chiunque vorrà partecipare al loro progresso. Quanto agli amministratori di iRS, non dovranno aiutare i sardi ad essere solo più ricchi, ad avere un lavoro migliore, ad usufruire di servizi più efficienti. Se è vero ciò che ho sentito a Bologna, iRS desidera rendere i sardi migliori nel cuore e nella mente: compito obbiettivamente straordinario, molto al di là di quella cura degli interessi materiali che costituisce il primo e spesso unico obbiettivo dei nostri politici. Nel contesto attuale, credo che lavorare per i sardi significherà talvolta lavorare contro di essi e loro malgrado. Proprio perciò sarà utile e interessante seguire l’attività degli amministratori di iRS e verificare, giorno per giorno, il loro modo di stare tra gli elettori. Nella speranza di averne parole e fatti davvero nuovi.

(Postato da Maurizio Onnis)

domenica 10 ottobre 2010

Il meraviglioso mondo del piccolo calcio

Non ho mai parlato della mia ormai lunga esperienza come dirigente accompagnatore della squadra di calcio dove gioca mio figlio, oggi dodici anni, che ha cominciato a tirare calci al pallone a otto.
Il titolo "dirigente" non deve trarre in inganno. Si tratta di uno o più papà che fanno volontariato: accompagnano i giocatori in macchina nelle trasferte, concordano con le altre squadre orari e questioni tecniche spicciole, danno avvisi ai genitori, portano in panchina le borracce con l'indispensabile "acqua miracolosa" che spruzzano generosamente su botte e storte e la borsa medica. Ah, sì: fanno anche i guardalinee, qualche volta gli arbitri, scrivono la lista dei giocatori da consegnare all'altra squadra, scrivono il referto della partita da inviare poi in Federazione, consegnano e ritirano le maglie e poi le portano in lavanderia, si assicurano che i ragazzi puliscano le scarpe infangate prima di entrare negli spogliatoi, vigilano che non si facciano male facendo la doccia, ascoltano le richieste delle mamme (comprese chiamate al cellulare dalla tribuna mentre sono in panchina: "dì al mio piccolo di mettere la giacca, è sudato!").

Si tratta di un'attività tutto sommato piuttosto divertente. Tutto il calcio dei ragazzi è di per sé divertente e stare loro vicini mentre fanno una cosa che gli piace così tanto ti rilassa anche come genitore.
A guastare la festa, o almeno a provarci piuttosto spesso, sono una parte dei genitori. Specialmente quelli che sono convinti - a volte, ma non sempre, con qualche motivo -, che il loro figlio sia un campione.
Anche in questo caso quasi sempre il soggetto in questione è solo un ragazzo che si diverte insieme ai suoi compagni. Ma si sa: ognuno ha diritto ha coltivare le proprie ambizioni e a cercare di raggiungere la felicità. E' quando la felicità viene fatta coincidere con il sogno di diventare (e guadagnare) come Pirlo, Pato, Ronaldinho o Nesta (si capisce che tengo al Milan?), che cominciano i guai.

Insomma, vi risparmio gli esempi (immaginabili) di offese personali, di alzate d'orgoglio, di mugugni e tradimenti della squadra (con rammarico del ragazzo stesso) provocati dall'attivismo dei genitori. Dico solo la morale che ne traggo: sembra che siamo capaci di trasmettere molte cose, ai nostri ragazzi, ma fra tutte la più difficile da insegnare è la gratuità.
E la semplice, magari sufficiente, bellezza di stare insieme dando calci al pallone, ottenendo il massimo da ciascuno e sfogando le migliori energie nel dare se stessi alla squadra.

Sarà che mi lamento perché dopo cinque anni sono arrivato, con mio figlio, al livello in cui per portar via un calciatore dalla sua squadra cominciano a girare (piccole) offerte di soldi e favori. Ma se non è nello sport che valgono più le soddisfazioni morali che il resto, dove sarà possibile parlarne ai ragazzi con sincerità?

E infine: guarda caso, e lo dico dopo lunga osservazione, sono proprio le squadre che mirano ad attirare i migliori e si vantano di praticare il calcio più competitivo, quelle in cui ti capita di vedere, mentre giocano, che hanno ragazzi che lo fanno con cattiveria e sempre meno gioia.
Gioia e gratuità, infatti, camminano insieme.


domenica 3 ottobre 2010

Un impegno politico a Bologna


Ieri ho sacrificato il sabato per una escursione a Bologna, con giustificazione politica. Sono infatti stato all’assemblea generale di iRS-Disterru. Dove iRS sta per indipendentzia Repubrica de Sardigna, vale a dire «indipendenza Repubblica di Sardegna» e Disterru sta per «disterrati», cioè «strappati dalla propria terra». In poche parole, i sardi che vivono fuori dall’isola. IRS, nato come movimento circa dodici anni fa, si è dato struttura di partito solo nel gennaio di questo 2010 e propugna l’indipendenza della Sardegna, Stato libero, europeo e mediterraneo, fuori dalla formazione statuale italiana. Non quindi una regione italiana più autonoma rispetto a Roma, né “quasi” sovrana nell’ambito di un’ipotetica Italia federale, ma proprio un Paese a sé, che abbia con l’Italia i rapporti usuali tra Stato e Stato. IRS ha partecipato alle ultime elezioni amministrative, lo scorso giugno, attestandosi intorno al 3% dei voti e conquistando diversi consiglieri provinciali e numerosi consiglieri comunali.


Ho sentito ieri parole belle, interessanti e in parte anche originali. IRS è infatti un partito rigorosamente non nazionalista e non violento. Non nazionalista perché ritiene i sardi una nazione, ma non certo superiore alle altre, e vuole aprire l’isola a tutti i contributi fattivi, da chiunque giungano, purché volti al bene dei sardi stessi e dell’intera comunità umana. Non violento perché rifiuta l’uso della forza in politica: particolare decisamente nuovo nel contesto europeo, animato da decenni da movimenti indipendentisti che hanno edificato tristi storie di bombe e sanguinosi attentati (vedi l’ETA basca e l’IRA nordirlandese). All’assemblea hanno preso parte, tra gli altri, la segretaria del partito, Ornella Demuru, e l’ideologo fondatore, Franciscu Sedda. La prima ha trentotto anni, il secondo trentaquattro, e non è un dettaglio insignificante. Erano presenti infatti a Bologna una sessantina di persone e la stragrande maggioranza aveva meno o poco più di trent’anni: la giovinezza dei militanti, che di per se stessa è sinonimo di forza, nuove idee ed entusiasmo, è ciò che più mi colpisce di iRS. Perché il futuro appartiene certamente a persone come loro e non a quelle che hanno già avuto la possibilità di lavorare nella storia e sulla storia: queste hanno già dato, e sarà la storia stessa a giudicarne l’operato.


Io non ho mai fatto politica attiva fino al 2008. La nascita del PD, allora, mi sembrò segnare l’inizio di un’epoca nuova per la società italiana e pensai che dall’unione delle tradizioni cattolica e socialista potesse venire un gran bene per il nostro Paese. Da lì presi le mosse per quasi due anni di militanza attiva tra i democratici, conclusisi con l’abbandono e una dichiarazione d’impotenza. Ritenni e ritengo ancora oggi, come molti altri, che il PD abbia tradito rapidamente le premesse ideali da cui nacque, ripiegando invece sulla più collaudata prassi politica nostrana: potere ai notabili, lontananza dalla gente, scarsa tensione etica, cedimento spinto al compromesso e soprattutto mancanza di un programma chiaro.


Ammaestrato da quella esperienza non posso certo aprire d’acchito un credito illimitato per iRS. So bene che la prova della sua bontà deve venire dai fatti e cioè dal lavoro dei suoi amministratori. I quali dovranno dimostrarsi capaci prima di tutto di agire senza farsi corrompere o manovrare o sviare. Poi di operare sul territorio realmente a fianco di chi li ha votati, e non solo per migliorarne la qualità di vita materiale, dato che i sardi dopo tutto non stanno così male. Dovranno lavorare soprattutto per un miglioramento del loro animo e della loro mente, generando e infondendo nei sardi il coraggio necessario a prendere finalmente in mano con decisione il proprio destino: compito straordinariamente impegnativo. Solo quando tutto ciò si sarà inverato potremo affermare che iRS è un partito nuovo.


Detto questo, voglio precisare per quale motivo mi sono avvicinato a iRS. Da un bel po’ di tempo, già prima di accostarmi al PD, ho maturato una forte coscienza della mia doppia natura di sardo e italiano. E ho spiegato in cosa consista in altri interventi su questo blog, etichettati nella categoria “identità”. Vivo tale doppia coscienza in modo ambivalente: talvolta con naturalezza, in altre occasioni percependone la contraddizione. Senza però che l’una identità prevalga sull’altra e senza che io, almeno fino a questo momento, voglia o possa dare la precedenza a una di esse. Ho passato ventitré anni della mia vita in Sardegna e ormai ventiquattro sul continente: sono figlio di entrambe le culture. Giudico comunque del tutto legittima, storicamente e appunto culturalmente, l’aspirazione dei sardi all’indipendenza. Non so se essa verrà. Non so se a farsene strumento sarà iRS. Ma certamente la ritengo ammissibile. Ed è una prospettiva insieme affascinante e inquietante. Non mi è dato di prevedere, oggi, cosa ne penserò in futuro. La riflessione su questo tema, mia e di molti miei conterranei, è aperta.

(postato da Maurizio Onnis)