domenica 24 ottobre 2010

Perché raccontare storie

Ieri pomeriggio ho tenuto ben volentieri una presentazione del nostro ultimo romanzo in una piccola, bella e attiva libreria di Saronno. Definisco comunque "romanzo" il nostro Io ti aspetto anche se, come ho spiegato durante l'incontro, si tratta per la precisione di una docu-fiction: la storia che viene raccontata è vera, ma si legge, appunto, come fosse un'opera di fantasia.

Qualcuno potrebbe domandarsi: ma se la storia che presentate è vera e per scriverla intervistate i protagonisti, raccogliete informazioni e documenti, studiate l'ambiente in cui hanno vissuto le loro vicende... che differenza c'è rispetto a un'inchiesta giornalistica? E soprattutto: cosa ci guadagna il lettore dal leggere una versione romanzata di un fatto vero?

La domanda è emersa durante la presentazione e per rispondere non ho potuto fare a meno di riflettere sull'attualità. Prendete il recente dramma dell'omicidio di Sara. Non ho nessun bisogno di dire altro, per evocare il fatto, i protagonisti, l'ambiente, luoghi, orari e mille altri particolari serviti al pubblico a tutte le ore del giorno e della notte da televisioni, internet e giornali.
Ma riflettiamo: dopo che abbiamo seguito (se proprio ci teniamo, ma sembra che siano in milioni ad appassionarsi a queste vicende) maratone televisive di ore e ore, con servizi, pareri di esperti, dibattiti e approfondimenti cosa manca? Cosa manca davvero?
Manca la cosa che solo uno scrittore può tentare e che è bene che uno scrittore tenti, per il bene di tutti: cercare di immedesimarci nei protagonisti, piuttosto che giudicarli.
Il giornalista, infatti, cerca di impressionare lo spettatore scovando particolari inediti, e se non ne trova li suggerisce: "Lui dice di aver violentato la ragazza, anzi: il suo cadavere!", "Lei prima si diceva amica della cugina, ora si scopre che la odiava, ecco le prove!" e via dicendo. Il pubblico inorridisce, si stupisce, disapprova, condanna, fa paragoni tra la propria vita e la qualità delle proprie relazioni e questo spettacolo bestiale...
Ma chi tenta veramente di capire? E cosa vuol dire davvero "capire"?

Lo scrittore viene dopo il giornalista, dopo l'espertone e le sue frequenti banalità, dopo gli investigatori, dopo i giudici. Lo scrittore arriva quando le acque si sono calmate, che per noi significa quasi sempre quando la storia è dimenticata. E a questo punto lo scrittore tenta di raccontare e raccontare è il più antico, il più umano, il più profondo... il più sacro degli strumenti di comprensione a disposizione del genere umano. E questo perché per raccontare bisogna almeno tentare di immedesimarsi nel protagonista. E perché il lettore segue davvero il racconto solo se accetta di immedesimarsi nel protagonista.

Certamente si può banalizzare e forzare una vicenda umana anche raccontandola: si prende "il cattivo", gli si appiccicano un paio di caratteristiche odiose e gli si contrappone "la vittima", magari anch'essa ridotta a pochi tratti semplificatori. E il gioco è fatto.
Sì, il gioco è fatto: ma per fare una storia debole, superficiale. Per simili semplificazioni, possibili e infatti presenti sui banchi delle librerie, ricordo sempre la definizione di una poetessa, Janice Kulyk Keefer: "favole senza pane", cioè storie senza alcuna sostanza, senza nutrimento, aria che riempie lo stomaco di nausea.

Qui sta l'artista e qui sta il suo servizio all'umanità. Dopo che i riflettori sono stati spenti e spente le telecamere, chiusa la porta del carcere o lasciato libero (se è giusto farlo) un "presunto colpevole"... lo scrittore, paziente, racconta e suggerisce al lettore: "ma hai provato, una volta o l'altra, a immaginarti nei panni di un uomo in preda a una passione magnetica e devastante? Hai provato una rabbia incontenibile? Sai che è possibile che il tuo equilibrio vada in pezzi, che i tuoi vizi ti vincano, che i tuoi più inconfessabili desideri prendano il controllo su di te? Hai mai riflettuto davvero sugli effetti che i tuoi atteggiamenti hanno sul tuo prossimo?".
Leggere un buon romanzo serve a questo, fin dalla notte dei tempi: prima di giudicare, metterci alla prova con un "se io fossi". E lasciarci comunque al sicuro, nel letto, la sera, con in mano un innocuo libro.
Il guadagno di questa operazione? Il frutto più importante, il dono di cui, alla fine (ma se possibile anche in ogni momento della nostra vita...) avremo bisogno: la misericordia e l'ampiezza di sguardo, su noi, sugli altri, sul mondo, su tutto.

Perché se Dio non esiste, come molti pensano, bisogna ben che ci attrezziamo, se dobbiamo essere noi Dio, come quasi tutti siamo abituati a fare.


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