L’avvocato Angelo Proserpio ha votato alle primarie del Partito Democratico domenica 25 ottobre, a Saronno.
L’avvocato Proserpio è un personaggio piuttosto noto in città, professionista stimato e con una lunga vita politica alle spalle, nelle fila dei partiti del centro sinistra. Tra le altre cose, è stato Assessore alla Cultura in una precedente amministrazione comunale e candidato per l’Ulivo alla Camera dei Deputati.
Perché la partecipazione di Proserpio alle primarie che hanno decretato la vittoria di Pierluigi Bersani fa notizia? Per capirlo bisogna compiere un passo indietro e spiegare in breve gli ultimi avvenimenti politici cittadini.
Dopo dieci anni di governo di centro destra, tra giugno e luglio si è affermato a Saronno un sindaco di centro sinistra: Luciano Porro, candidato del Partito Democratico e vincitore al ballottaggio con il 52% dei voti sulla rivale Annalisa Renoldi, candidata di UDC, Popolo della Libertà e Lega Nord. Porro, dal canto suo, aveva il sostegno di numerose liste d’area, tra cui Tu@Saronno, guidata proprio dall’avvocato Proserpio. A Proserpio è andata la poltrona di vicesindaco, mentre Porro si è insediato sullo scranno di sindaco. Il governo del centro sinistra è durato però pochi giorni. È caduto in seguito alle dimissioni degli uomini del centro destra, che avevano la maggioranza in consiglio comunale. I saronnesi, infatti, hanno assegnato la vittoria al ballottaggio a Porro dopo aver dato al primo turno la maggioranza consiliare ai suoi avversari. Una situazione bizzarra, che ha avuto questo esito: oggi Saronno è guidata dal Commissario prefettizio. E così sarà fino alla nuova tornata elettorale, la prossima primavera. Quando, si spera, i cittadini esprimeranno un giudizio politico univoco.
Le manovre in vista delle nuove elezioni sono già cominciate e Luciano Porro si è ricandidato alla carica di sindaco, con il sostegno di tutte le forze che l’hanno accompagnato al ballottaggio.
Tutte tranne una: Tu@Saronno. Sempre guidata dall’avvocato Proserpio, la lista civica si è chiamata fuori dalla coalizione. Al momento Proserpio non ha ancora annunciato la sua candidatura a sindaco, ma tutto lascia pensare che compirà questa scelta. In nome, dicono i suoi sostenitori, della necessità di cercare e poi rappresentare il consenso degli elettori che non si riconoscono nei rissosi partiti del nostro parlamento. Essi affermano che i partiti dovrebbero fare un passo indietro e che le liste civiche interpretano meglio bisogni e speranze della società.
Ecco perché appare strano che l’avvocato Proserpio si sia avvicinato il 25 ottobre ai seggi del Partito Democratico per votare.
Tra le possibili spiegazioni di questo gesto, incongruo per un personaggio che professa opposizione ai partiti, riporto quella che a me appare più verosimile. Proserpio ha votato alle primarie del PD perché sente il PD come la propria formazione di riferimento a livello nazionale. Ma rifiuta di allearsi con esso a livello locale perché noi del PD di Saronno non siamo all’altezza delle sue aspettative politiche. E perché, presumibilmente, ritiene di essere un candidato sindaco migliore del nostro. È un'ipotesi zoppicante, lo so, soprattutto se si pensa che il matrimonio era già stato celebrato in giugno. È però anche l'ipotesi meno bislacca tra quelle che ho sentito enunciare in questi giorni da differenti personaggi della mia parte. Ovviamente sarebbe interessante sentire in proposito il parere di esponenti di altre forze politiche, coalizzate o meno con il PD. E più di tutte sarebbe utile a chiarirmi le idee l’opinione dello stesso Proserpio. Il quale, come autore del gesto, è l’unico autorizzato a darne un’interpretazione autentica.
Io però ho un’altra domanda, da porre non all’avvocato ma ai miei compagni di partito.
È possibile che l’identità del PD sia così labile da rendere naturale per un uomo avvertito come l’avvocato Proserpio attraversarla con tanta noncuranza?
È davvero così facile essere democratici?
venerdì 30 ottobre 2009
domenica 25 ottobre 2009
c'è bisogno di ingenuità
Il nostro mondo occidentale è preda di uno smisurato e potente senso di colpa. In questo siamo vecchi, molto vecchi. Per reazione alla colpa, infatti, il nostro cuore si indurisce: "che si pretende da noi, poveri colpevoli? Lasciateci ammettere le nostre colpe e poi lasciateci in pace!", diciamo tutti, come fanno gli adolescenti quando di fronte alle pretese dei genitori (quelle avanzate "per il loro bene") si sentono inadeguati.
Ovviamente, poi, appena uno è un poco più colpevole di noi lo attacchiamo come belve inferocite: è proprio così che fanno i colpevoli.
Sì, siamo colpevoli un po' di tutto. La colpa è la dimensione unificante del nostro passato e del nostro presente. Siamo colpevoli del colonialismo, delle guerre mondiali con i loro orrori, dello sterminio degli ebrei e di altri genocidi, della guerra fredda, dell'industrializzazione forzata o subita passivamente, della ricerca del profitto in ogni rapporto sociale, dello sfruttamento del sud del mondo, del fallimento delle ideologie - tutte colpevoli anch'esse -, della nostra cattiva alimentazione, della mancata prevenzione delle malattie - e quindi siamo sotto sotto colpevoli anche quando siamo malati -, della rovina della natura e della biosfera...
Sì, viviamo nel senso di colpa e gli animali con la loro ovvia naturalità ci fanno continuamente vergognare di noi stessi (per questo tendiamo a risarcirli con intense cure, invece che convivere con loro per quello che semplicemente sono).
Da tutta questa somma infinita di colpe deriva il nostro ostinato e confuso balbettìo. Per esempio è difficile dire nel modo giusto di credere in qualcosa - prima di tutto nell'uomo, figuriamoci in dio -, perché tutte le fedi, manco a dirlo, sono colpevoli: di fronte alla storia, di fronte alla scienza, di fronte ai poveri o alle donne e così via. E chi pensa di credere lo dice urlando, per timore di qualsiasi smentita. Ma la smentita che teme, che prontamente arriva poco dopo che ha aperto bocca, ce l'ha già dentro da sempre, lo accompagna in ogni istante della sua speranza.
Altro esempio: l'arte non se la sente di rappresentare la figura umana, e se lo fa ci mostra una figura tormentata, frammentata, dissolta e lacerata. C'è stato un tempo in cui gli artisti consideravano normale ritrarre una bella donna per raccontare il divino. Oggi non possiamo proprio nemmeno provarci. Siamo colpevoli, infatti, nei confronti del corpo e di ogni bellezza.
La politica, infine, chiede continuamente scusa di esistere: il risultato in questo campo è una campagna elettorale continua, perché nessuno si sente mai davvero autorizzato - e responsabilizzato - a governare. E anche qui: chi lo pensa, lo grida per sovrastare le voci o le insinuazioni o le manovre o gli strilli di chi mette sempre in dubbio il suo diritto-dovere. E così sia chi è al potere che chi è all'opposizione vive nel terrore.
E se invece di cercare di essere nello stesso tempo colpevoli, duri e scaltri (prudenti, accorti, cauti, furbi, attenti a ogni parola o attenti a gridare abbastanza e attenti ad ogni apparire) fossimo tutti un po' più ingenui?
Ingenui vuol dire "nuovi", "appena nati". Una persona ingenua si muove con una sorta di ignoranza e spesso appare ridicola e inadeguata e mette in imbarazzo. Un ingenuo è per forza di cose un portatore di novità: le "cose come stanno" gliele spiegano gli altri, cioè quelli che gli aprono gli occhi sulle colpe del mondo, dalle quali deve sapersi guardare e delle quali (non faccia finta!) deve rispondere anche lui.
L'ingenuo, a volte, suscita il sospetto che stia facendo apposta. L'ingenuità, del resto, non si dimostra: o c'è o non c'è. Bisognerebbe, però, lasciarsene sorprendere e toccare. Perché l'ingenuità fa bene.
Il famoso "discorso della luna" di giovanni XXIII (per tutti il "papa buono"...) è fatto di parole ingenue. Ghandi apparve spesso ai suoi ascoltatori un uomo ingenuo. Così inventò una nazione, ma soprattutto cercò di inventare la sua anima (era ingenuo anche quando diceva apertamente che il sistema delle caste è il frutto avvelenato dell'amata fede induista). Obama, in alcuni suoi discorsi prova ad essere ingenuo (come al cairo, quando ha detto semplicemente che anche nel mondo islamico dovrebbero esserci libertà religiosa e parità per le donne).
La vecchietta che recita il rosario per tutti i suoi occupatissimi nipoti è ingenua. Benedetto XVI in visita ai terremotati dell'abruzzo che legge loro un freddo discorso scritto non lo è e rischia di dimenticarsi che per fare bene il papa bisogna fare il padre.
Dostoevskij era ingenuo: si sente, leggendolo, che sa stupirsi ancora delle cose che già ai suoi tempi sembravano orrori necessari e inevitabili. Hemingway, a suo modo, era ingenuo, con tutto quel suo egoismo di cui parla apertamente. Kafka, nel suo spavento di fronte al mistero del mondo, nascosto nelle cose più minute e concrete, lo è sempre. C'è ingenuità in molti romanzi scritti ancora oggi da autori dei paesi in via di sviluppo (india, africa, sudamerica...), perché sembrano autori del nostro neorealismo cinematografico e parlano ancora semplicemente di povera gente.
E anch'io, che tento di coinvolgervi in questa tremolante riflessione, sono ingenuo. Ma non abbastanza.
Ma incontrare un ingenuo, uno vero, è sorprendente come incontrare un angelo. Non vi è mai capitato? proviamo a raccontarcelo.
venerdì 23 ottobre 2009
dalla "cosa" di moretti alle primarie del pd
ieri sera ho rivisto la cosa di moretti e ne traggo spunto per una riflessione non pacificata.
il documentario è del 1990, ma se guardo al disorientamento dei suoi protagonisti sembra passato appena un giorno. i militanti del pci discutevano allora nelle sezioni le proposte di occhetto e si facevano le domande più ampie e tradizionali: chi siamo, cosa vogliamo, dove andiamo. ebbene, è lo stesso disorientamento che trovo io oggi nel pd.
per cosa diavolo sono trascorsi vent’anni? veltroni parlava di «grande forza riformista» e il suo fiasco indica che l’approdo al riformismo è tutto ancora solo nelle parole. chi siamo, cosa vogliamo e dove andiamo: io non ho sentito una risposta chiara per queste domande, né a livello nazionale né a livello locale. è così infatti anche nel circolo di saronno, cui appartengo. pressati da perenni emergenze, elettorali o meno, abbiamo rinunciato a discutere di noi stessi. come mi aveva facilmente pronosticato poco più di un anno fa tosi - il segretario provinciale -, è l’azione alla fine a dettare l’identità. magro risultato per chi si è accostato al pd nella speranza di vedervi finalmente distillato oltre un secolo di esperienza politica sociale. il mondo ha bocciato il comunismo e tuttavia i militanti ritratti da moretti miravano almeno alto. noi questa ambizione l’abbiamo completamente persa.
sul perché sia accaduto tutto ciò si fanno ipotesi verosimili. negli ultimi decenni il vento ha spirato sulla terra in senso contrario a solidarismo e comunitarismo. idem in italia, con berlusconi e lo stile di vita arrogantemente individualista che si è portato dietro. ma questa spiegazione non mi basta. ora che il vento cambia direzione e si fa incerto, la destra in italia e fuori continua a dimostrare una capacità di manovra che a noi manca del tutto. tremonti e i suoi compagni si permettono di passare da un modello economico all’altro, con totale spregiudicatezza e rubandoci parole d’ordine che dovrebbero appartenere a noi.
io credo che il difetto stia nel manico, nel nostro manico. chi si spulci le mozioni di bersani e franceschini, vi troverà propagandato a più riprese il merito come architrave di rapporti sociali corretti. troverà il merito declinato in tutte le salse. ma non troverà menzionata neanche una volta la giustizia sociale. neanche una volta. queste sono persone che, nell’ansia di incarnare il nuovo, hanno perso la capacità di ricordare il passato e recuperarne il meglio. ecco perché vanno a traino di tremonti.
la storia che io ho tanto amato, la storia di un socialismo e di un cattolicesimo capaci di camminare accanto all’uomo comune, è semplicemente evaporata. non abbiamo radici. e senza radici, non si legge il presente e tanto meno si può scrutare il futuro. lo slogan adottato da bersani - “per dare un senso a questa storia” - a me sembra una solenne presa in giro. e io il 25 voto marino. contro l’apparato che si auto replica e riempie di fumo i miei occhi.
da tangentopoli in poi ho sempre votato la coalizione di centro-sinistra, mai barrando il simbolo di un singolo partito. ritenevo che la coalizione mi rappresentasse e che nessun singolo partito mi rappresentasse. sono entrato nel pd perché finalmente centro e sinistra si univano: il pd mi rappresentava.
la mancanza di elaborazione di cui parlavo sopra e il deficit di identità che ne consegue causano però un grave difetto. vedo a malapena la sinistra. non vedo più il centro. non parlo di uomini, parlo di idee e progetti coerenti. non vedo più le idee del centro adeguatamente rappresentate nel pd. non le vedo a livello nazionale e non le vedo a livello locale. come me, non le vedono molti elettori, tanto che il pd è in costante emorragia di voti. proprio al centro, laddove dovrebbe crescere se volesse davvero agguantare il governo d’italia.
un partito democratico del genere a me interessa davvero poco. e dunque: che fare?
il documentario è del 1990, ma se guardo al disorientamento dei suoi protagonisti sembra passato appena un giorno. i militanti del pci discutevano allora nelle sezioni le proposte di occhetto e si facevano le domande più ampie e tradizionali: chi siamo, cosa vogliamo, dove andiamo. ebbene, è lo stesso disorientamento che trovo io oggi nel pd.
per cosa diavolo sono trascorsi vent’anni? veltroni parlava di «grande forza riformista» e il suo fiasco indica che l’approdo al riformismo è tutto ancora solo nelle parole. chi siamo, cosa vogliamo e dove andiamo: io non ho sentito una risposta chiara per queste domande, né a livello nazionale né a livello locale. è così infatti anche nel circolo di saronno, cui appartengo. pressati da perenni emergenze, elettorali o meno, abbiamo rinunciato a discutere di noi stessi. come mi aveva facilmente pronosticato poco più di un anno fa tosi - il segretario provinciale -, è l’azione alla fine a dettare l’identità. magro risultato per chi si è accostato al pd nella speranza di vedervi finalmente distillato oltre un secolo di esperienza politica sociale. il mondo ha bocciato il comunismo e tuttavia i militanti ritratti da moretti miravano almeno alto. noi questa ambizione l’abbiamo completamente persa.
sul perché sia accaduto tutto ciò si fanno ipotesi verosimili. negli ultimi decenni il vento ha spirato sulla terra in senso contrario a solidarismo e comunitarismo. idem in italia, con berlusconi e lo stile di vita arrogantemente individualista che si è portato dietro. ma questa spiegazione non mi basta. ora che il vento cambia direzione e si fa incerto, la destra in italia e fuori continua a dimostrare una capacità di manovra che a noi manca del tutto. tremonti e i suoi compagni si permettono di passare da un modello economico all’altro, con totale spregiudicatezza e rubandoci parole d’ordine che dovrebbero appartenere a noi.
io credo che il difetto stia nel manico, nel nostro manico. chi si spulci le mozioni di bersani e franceschini, vi troverà propagandato a più riprese il merito come architrave di rapporti sociali corretti. troverà il merito declinato in tutte le salse. ma non troverà menzionata neanche una volta la giustizia sociale. neanche una volta. queste sono persone che, nell’ansia di incarnare il nuovo, hanno perso la capacità di ricordare il passato e recuperarne il meglio. ecco perché vanno a traino di tremonti.
la storia che io ho tanto amato, la storia di un socialismo e di un cattolicesimo capaci di camminare accanto all’uomo comune, è semplicemente evaporata. non abbiamo radici. e senza radici, non si legge il presente e tanto meno si può scrutare il futuro. lo slogan adottato da bersani - “per dare un senso a questa storia” - a me sembra una solenne presa in giro. e io il 25 voto marino. contro l’apparato che si auto replica e riempie di fumo i miei occhi.
da tangentopoli in poi ho sempre votato la coalizione di centro-sinistra, mai barrando il simbolo di un singolo partito. ritenevo che la coalizione mi rappresentasse e che nessun singolo partito mi rappresentasse. sono entrato nel pd perché finalmente centro e sinistra si univano: il pd mi rappresentava.
la mancanza di elaborazione di cui parlavo sopra e il deficit di identità che ne consegue causano però un grave difetto. vedo a malapena la sinistra. non vedo più il centro. non parlo di uomini, parlo di idee e progetti coerenti. non vedo più le idee del centro adeguatamente rappresentate nel pd. non le vedo a livello nazionale e non le vedo a livello locale. come me, non le vedono molti elettori, tanto che il pd è in costante emorragia di voti. proprio al centro, laddove dovrebbe crescere se volesse davvero agguantare il governo d’italia.
un partito democratico del genere a me interessa davvero poco. e dunque: che fare?
mercoledì 21 ottobre 2009
sarditaliano/4 (e ultimo)
Italiano, europeo, cittadino del mondo, sardo.
Quale di questi elementi viene prima degli altri? Devono fondersi? Devo fare io uno sforzo consapevole e ideologico per privilegiarne uno?
No. Sarebbe sbagliato ed è anche impossibile.
Non si può privare l’individuo di una parte della sua personalità. O coartarla.
Gli indipendentisti dicono che avremo l’indipendenza quando i sardi sapranno di essere sardi e non italiani.
Ma se cercassi di estirpare la mia italianità e riempire il vuoto con la mia sardità, se mi sottoponessi consapevolmente a questo esperimento di laboratorio, otterrei un solo risultato: diventare un infelice.
Forse gli indipendentisti parlano dei sardi del futuro. Di una generazione già prossima alla mia, ma diversa.
A me spetta il compito di formarmi a una mentalità libera da pregiudizi, convenzioni e stereotipi culturali.
E di formare altri sardi - con la parola scritta e parlata, perché questo è il mio talento - all’indipendenza di pensiero, alla conoscenza della loro storia e alla scoperta delle loro tradizioni.
Penso ai bambini, ai ragazzi e ai giovani. Affinché poi, nella vita da adulti, venga loro naturale pensare e agire da sardi.
Certo, non voglio morire da gallo romanizzato.
Quale di questi elementi viene prima degli altri? Devono fondersi? Devo fare io uno sforzo consapevole e ideologico per privilegiarne uno?
No. Sarebbe sbagliato ed è anche impossibile.
Non si può privare l’individuo di una parte della sua personalità. O coartarla.
Gli indipendentisti dicono che avremo l’indipendenza quando i sardi sapranno di essere sardi e non italiani.
Ma se cercassi di estirpare la mia italianità e riempire il vuoto con la mia sardità, se mi sottoponessi consapevolmente a questo esperimento di laboratorio, otterrei un solo risultato: diventare un infelice.
Forse gli indipendentisti parlano dei sardi del futuro. Di una generazione già prossima alla mia, ma diversa.
A me spetta il compito di formarmi a una mentalità libera da pregiudizi, convenzioni e stereotipi culturali.
E di formare altri sardi - con la parola scritta e parlata, perché questo è il mio talento - all’indipendenza di pensiero, alla conoscenza della loro storia e alla scoperta delle loro tradizioni.
Penso ai bambini, ai ragazzi e ai giovani. Affinché poi, nella vita da adulti, venga loro naturale pensare e agire da sardi.
Certo, non voglio morire da gallo romanizzato.
martedì 20 ottobre 2009
sarditaliano/3
E poi sono sardo. Per tanti versanti.
Ho visto molti posti straordinari. Ma in nessun luogo il cielo, il mare e la terra si incontrano come a Cagliari, la mia città.
Ho visto molti posti straordinari. Ma nessun luogo mi scuote come l’interno della mia isola. È talmente selvaggio che viene voglia di stringersi al suolo e addormentarsi per sempre, finalmente uniti alla terra.
Ho sempre avuto fortissimo il senso della mia insularità, geografica ed etnica. Qui prendi la macchina o il treno e arrivi a Capo Nord. Lì prendi la macchina o il treno e arrivi al mare. Il mare ci chiude da ogni lato e servono la nave o l’aereo per giungere in continente. Non ho mai vissuto l’insularità come un limite o un impoverimento, ma come una grazia del destino. Non mi reclude, perché posso (faticosamente) varcarne i confini quando voglio. E mi protegge da chi non conosco. Sull’isola so dove sono e soprattutto so con chi sono. Qui ti giri e trovi accanto a te un volto e un animo che non puoi classificare, non sapendo da quale regione o lontano paese vengano. Lì ti giri e trovi accanto a te un sardo. Sardo tra i sardi. L’isola mi aiuta a conoscere e riconoscere la mia gente. È il mio rifugio da questo luogo troppo aperto.
Sono capace di pronunciare e pensare qualche parola in sardo. Le poche che ho assimilato dall’ambiente della mia infanzia. Ogni volta che pronuncio o penso una di queste parole mi si apre un orizzonte di senso nuovo e diverso rispetto a quello praticato con la lingua italiana. E sono più libero.
Sono sardo perché mio padre mi ha regalato l’edizione originale de La lingua sarda di Wagner, stampata a Berna nel 1951, pescandola tra le centinaia di libri di cose sarde della sua biblioteca. Libri che ho sfogliato moltissime volte quando ancora vivevo con la mia famiglia. E che terrò io quando lui non ci sarà più.
Chi dice che l’Europa ha radici cristiane è ignorante o in cattiva fede. L’Europa ha radici pagane. Io, che sono sardo, lo so bene. Ogni volta che torno a Sa dommu e s’Orku di Siddi respiro una solennità e una tensione spirituali ineguagliabili. Paganesimo incardinato nel rapporto con la natura: la terra, la pietra, il legno. I miei avi conoscevano l’anima del mondo. E io ne percepisco ancora la lontana eco.
Col tempo, ho lentamente scoperto che porto sulle spalle una storia di popolo. E non posso non maledire chi non me l’ha insegnata quand’era il momento. Sono stato derubato della vita passata della mia gente. Nessuno mi ha mai raccontato della civiltà nuragica, delle dominazioni straniere, del periodo giudicale. Nessuno, se non per accenni frammentari e comunque fuori dalla sede istituzionale in cui questo racconto andava svolto: la scuola. Perché è la scuola - lo sappiamo per esperienza diretta - a formare la coscienza nazionale di un individuo. Ho dovuto imparare tutto ciò da solo.
Di recente a Cagliari mi sono trovato a cena con dei vecchi compagni di classe. A tavola eravamo in quindici: e su quindici, io ero l’unico libero professionista. Tutti gli altri erano e sono dipendenti pubblici o privati. D’alto livello, ma dipendenti. Mi arrabbio molto per la mancanza tra i miei conterranei di un maggiore dinamismo economico e sociale. E sono contento di arrabbiarmi: sono sardo e la sorte dell’isola non mi è indifferente. Posso e voglio fare tanto perché cambi la mentalità dominante: acquiescente, indolente, chiusa se non ottusa. Il mio sogno è tornare in Sardegna e lavorare con i sardi alla maniera dei kibbutzim che hanno creato Israele. Trasformando terre che tutti dicono avare e povere in un giardino dell’Eden.
Dunque sono e mi sento sardo.
E vivo da sardo, con la testa e con il cuore...
Ho visto molti posti straordinari. Ma in nessun luogo il cielo, il mare e la terra si incontrano come a Cagliari, la mia città.
Ho visto molti posti straordinari. Ma nessun luogo mi scuote come l’interno della mia isola. È talmente selvaggio che viene voglia di stringersi al suolo e addormentarsi per sempre, finalmente uniti alla terra.
Ho sempre avuto fortissimo il senso della mia insularità, geografica ed etnica. Qui prendi la macchina o il treno e arrivi a Capo Nord. Lì prendi la macchina o il treno e arrivi al mare. Il mare ci chiude da ogni lato e servono la nave o l’aereo per giungere in continente. Non ho mai vissuto l’insularità come un limite o un impoverimento, ma come una grazia del destino. Non mi reclude, perché posso (faticosamente) varcarne i confini quando voglio. E mi protegge da chi non conosco. Sull’isola so dove sono e soprattutto so con chi sono. Qui ti giri e trovi accanto a te un volto e un animo che non puoi classificare, non sapendo da quale regione o lontano paese vengano. Lì ti giri e trovi accanto a te un sardo. Sardo tra i sardi. L’isola mi aiuta a conoscere e riconoscere la mia gente. È il mio rifugio da questo luogo troppo aperto.
Sono capace di pronunciare e pensare qualche parola in sardo. Le poche che ho assimilato dall’ambiente della mia infanzia. Ogni volta che pronuncio o penso una di queste parole mi si apre un orizzonte di senso nuovo e diverso rispetto a quello praticato con la lingua italiana. E sono più libero.
Sono sardo perché mio padre mi ha regalato l’edizione originale de La lingua sarda di Wagner, stampata a Berna nel 1951, pescandola tra le centinaia di libri di cose sarde della sua biblioteca. Libri che ho sfogliato moltissime volte quando ancora vivevo con la mia famiglia. E che terrò io quando lui non ci sarà più.
Chi dice che l’Europa ha radici cristiane è ignorante o in cattiva fede. L’Europa ha radici pagane. Io, che sono sardo, lo so bene. Ogni volta che torno a Sa dommu e s’Orku di Siddi respiro una solennità e una tensione spirituali ineguagliabili. Paganesimo incardinato nel rapporto con la natura: la terra, la pietra, il legno. I miei avi conoscevano l’anima del mondo. E io ne percepisco ancora la lontana eco.
Col tempo, ho lentamente scoperto che porto sulle spalle una storia di popolo. E non posso non maledire chi non me l’ha insegnata quand’era il momento. Sono stato derubato della vita passata della mia gente. Nessuno mi ha mai raccontato della civiltà nuragica, delle dominazioni straniere, del periodo giudicale. Nessuno, se non per accenni frammentari e comunque fuori dalla sede istituzionale in cui questo racconto andava svolto: la scuola. Perché è la scuola - lo sappiamo per esperienza diretta - a formare la coscienza nazionale di un individuo. Ho dovuto imparare tutto ciò da solo.
Di recente a Cagliari mi sono trovato a cena con dei vecchi compagni di classe. A tavola eravamo in quindici: e su quindici, io ero l’unico libero professionista. Tutti gli altri erano e sono dipendenti pubblici o privati. D’alto livello, ma dipendenti. Mi arrabbio molto per la mancanza tra i miei conterranei di un maggiore dinamismo economico e sociale. E sono contento di arrabbiarmi: sono sardo e la sorte dell’isola non mi è indifferente. Posso e voglio fare tanto perché cambi la mentalità dominante: acquiescente, indolente, chiusa se non ottusa. Il mio sogno è tornare in Sardegna e lavorare con i sardi alla maniera dei kibbutzim che hanno creato Israele. Trasformando terre che tutti dicono avare e povere in un giardino dell’Eden.
Dunque sono e mi sento sardo.
E vivo da sardo, con la testa e con il cuore...
lunedì 19 ottobre 2009
è uscito in edizione economica un nostro romanzo
Il nostro romanzo Il violinista di Praga, uscito in libreria nel 2007, è ora disponibile in edizione economica. Lo si può trovare distribuito nelle edicole.
Si tratta di un thriller storico, firmato con lo pseudonimo Michael Crane. La vicenda è ambientata nella capitale della Boemia nell'anno 1787. Ha per protagonisti il grande musicista Mozart, una nuova figura di investigatore, un misterioso manoscritto e... il colpevole - al lettore indovinare chi - di atroci delitti. Il tutto nei giorni della prima de Il Don Giovanni, la più intrigante opera del compositore austriaco.
Attendiamo per la prossima primavera la pubblicazione del romanzo in spagnolo nei tipi di Grijalbo, un importante editore del gruppo Random House.
Si tratta di un thriller storico, firmato con lo pseudonimo Michael Crane. La vicenda è ambientata nella capitale della Boemia nell'anno 1787. Ha per protagonisti il grande musicista Mozart, una nuova figura di investigatore, un misterioso manoscritto e... il colpevole - al lettore indovinare chi - di atroci delitti. Il tutto nei giorni della prima de Il Don Giovanni, la più intrigante opera del compositore austriaco.
Attendiamo per la prossima primavera la pubblicazione del romanzo in spagnolo nei tipi di Grijalbo, un importante editore del gruppo Random House.
sarditaliano/2
Per me è cominciata, circa una quindicina d’anni fa, un’opera di decostruzione delle verità che famiglia, scuola e società mi avevano impartito.
Mi hanno insegnato che la famiglia basata sull’unione tra uomo e donna è la cellula naturale e fondamentale della società.
È falso.
Anche l’unione tra uomo e uomo o tra donna e donna è naturale. E c’è stato un tempo, molto più lungo dell’attuale, in cui uomini, donne e bambini vivevano comunitariamente. La famiglia, come oggi la conosciamo, ha radici patrimoniali, religiose e sociali precise, che l’antropologia ha bene approfondito.
Mi hanno insegnato che esiste un solo dio e che, a voler essere proprio giusti, è il nostro dio.
È falso.
Esistono tanti dei quanti sono gli uomini. Non ho infatti incontrato due uomini che abbiano la stessa idea di dio, nemmeno tra coloro che sostengono di appartenere alla medesima fede religiosa.
L’autorità mi spinge ad obbedire alla Chiesa e alla sua visione di dio. Ma io voglio obbedire alla chiesa che è nel mio cuore e alla mia visione di dio. Questo è il dio che soddisfa la mia spiritualità, non un altro.
E rispetto chi non crede in alcun dio, non ritenendomi superiore o più ricco di lui.
Mi hanno insegnato che la guerra ha accompagnato l’uomo in tutta la sua storia e che è connaturata a lui.
È falso.
L’umanità ha conosciuto nel tempo lunghi periodi di pace. Ogni vivente desidera la pace.
E persino il più violento, ambizioso e potente degli uomini è, in ultimo, ancora libero di scegliere se fare la pace o la guerra.
Mi hanno insegnato che nella vita bisogna avere successo e ottenere il riconoscimento altrui.
È falso.
Nessun risultato professionale mi ha mai soddisfatto.
E ho imparato che è molto più difficile rispondere alla domanda: come posso ricongiungermi con me stesso?
Mi hanno insegnato che sono italiano.
È falso. O, per lo meno, non è l’intera verità.
Prima di tutto perché so da un pezzo di essere e sentirmi anche europeo e cittadino del mondo. Per un paio di motivi fondamentali.
Ancora oggi tremo d’emozione al leggere le cronache della Somme. È assurdo che nei secoli l’Europa abbia buttato via in guerre fratricide le sue forze migliori. Credo che l’Europa sia abitata da popoli destinati ad essere fratelli. Non per costrizione, ma perché hanno scoperto quali buoni frutti produce l’unione delle genti entro i confini del nostro piccolo continente. E ho sempre guardato con entusiasmo alla crescita e al rafforzamento prima della CEE e poi della UE. Per anni ho tenuta appesa in camera la bandiera azzurra a dodici stelle.
Per lungo tempo ho vissuto con filippini, coreani, argentini, indiani. E ho viaggiato, anche. Da queste esperienze ho ricavato una convinzione: è semplicemente stupido stilare classifiche tra culture e sistemi di valori diversi. Il rispetto e l’ascolto possono risolvere gran parte dei problemi dell’umanità. Intolleranza, confini e discriminazione nascondono la realtà: tutti gli uomini sulla Terra hanno diritto di crescere e vivere bene. È un diritto che vogliamo per noi e non possiamo negarlo ad altri. Il cosmopolitismo, prima ancora che una scelta, è un dovere e una necessità...
Mi hanno insegnato che la famiglia basata sull’unione tra uomo e donna è la cellula naturale e fondamentale della società.
È falso.
Anche l’unione tra uomo e uomo o tra donna e donna è naturale. E c’è stato un tempo, molto più lungo dell’attuale, in cui uomini, donne e bambini vivevano comunitariamente. La famiglia, come oggi la conosciamo, ha radici patrimoniali, religiose e sociali precise, che l’antropologia ha bene approfondito.
Mi hanno insegnato che esiste un solo dio e che, a voler essere proprio giusti, è il nostro dio.
È falso.
Esistono tanti dei quanti sono gli uomini. Non ho infatti incontrato due uomini che abbiano la stessa idea di dio, nemmeno tra coloro che sostengono di appartenere alla medesima fede religiosa.
L’autorità mi spinge ad obbedire alla Chiesa e alla sua visione di dio. Ma io voglio obbedire alla chiesa che è nel mio cuore e alla mia visione di dio. Questo è il dio che soddisfa la mia spiritualità, non un altro.
E rispetto chi non crede in alcun dio, non ritenendomi superiore o più ricco di lui.
Mi hanno insegnato che la guerra ha accompagnato l’uomo in tutta la sua storia e che è connaturata a lui.
È falso.
L’umanità ha conosciuto nel tempo lunghi periodi di pace. Ogni vivente desidera la pace.
E persino il più violento, ambizioso e potente degli uomini è, in ultimo, ancora libero di scegliere se fare la pace o la guerra.
Mi hanno insegnato che nella vita bisogna avere successo e ottenere il riconoscimento altrui.
È falso.
Nessun risultato professionale mi ha mai soddisfatto.
E ho imparato che è molto più difficile rispondere alla domanda: come posso ricongiungermi con me stesso?
Mi hanno insegnato che sono italiano.
È falso. O, per lo meno, non è l’intera verità.
Prima di tutto perché so da un pezzo di essere e sentirmi anche europeo e cittadino del mondo. Per un paio di motivi fondamentali.
Ancora oggi tremo d’emozione al leggere le cronache della Somme. È assurdo che nei secoli l’Europa abbia buttato via in guerre fratricide le sue forze migliori. Credo che l’Europa sia abitata da popoli destinati ad essere fratelli. Non per costrizione, ma perché hanno scoperto quali buoni frutti produce l’unione delle genti entro i confini del nostro piccolo continente. E ho sempre guardato con entusiasmo alla crescita e al rafforzamento prima della CEE e poi della UE. Per anni ho tenuta appesa in camera la bandiera azzurra a dodici stelle.
Per lungo tempo ho vissuto con filippini, coreani, argentini, indiani. E ho viaggiato, anche. Da queste esperienze ho ricavato una convinzione: è semplicemente stupido stilare classifiche tra culture e sistemi di valori diversi. Il rispetto e l’ascolto possono risolvere gran parte dei problemi dell’umanità. Intolleranza, confini e discriminazione nascondono la realtà: tutti gli uomini sulla Terra hanno diritto di crescere e vivere bene. È un diritto che vogliamo per noi e non possiamo negarlo ad altri. Il cosmopolitismo, prima ancora che una scelta, è un dovere e una necessità...
domenica 18 ottobre 2009
sarditaliano/1
Io sono italiano per tanti motivi. Ecco i più importanti.
Sono stato battezzato e unito ancora incosciente alla fede cristiana cattolica. Fede di Roma, dunque orgoglio d’Italia. Felice di appartenere a un credo che sapevo universale ma che aveva pur sempre il centro nel mio paese. Obbediente a un magistero originatosi a Roma e che si irradiava da lì sul mondo intero.
Da che io ricordi, mio padre e mia madre mi hanno sempre detto che sono italiano.
A casa e poi in classe mi è stato insegnato l’italiano. Una lingua non informa semplicemente, ma forma chi in essa viene educato e io sono cresciuto dentro un mare di significanti e significati italiani. Alla visione del mondo “italiana” si sono adeguati la mia coscienza e i miei rapporti esterni, personali e materiali.
Da piccolo, frequentavo una scuola privata in cui l’alzabandiera era usuale. Con accompagnamento della Canzone del Piave. E sono cresciuto nel culto di quella battaglia e degli eroi che diedero la vita per difendere la patria.
Storia, letteratura, scienza, arte: tutta l’istruzione di base mi è stata impartita in chiave italiana. I successi italiani nei campi del sapere e dell’agire sono diventati i miei successi, le sconfitte italiane le mie sconfitte. Ho imparato a ragionare e misurare la mia statura di individuo dotato di identità nazionale sul metro dell’identità nazionale italiana. Nella convinzione assoluta che un popolo italiano, che una nazione italiana esistano. E che i sardi ne facciano parte. Dunque, oggi, se l’Italia va bene anche io vado bene. Se l’Italia va male anche io vado male.
Io scrivo in italiano per le scuole italiane. I ragazzi apprendono dai miei libri la storia italiana, la geografia italiana, il valore della costituzione italiana. Una logica chiusura del cerchio rispetto a quanto ho sperimentato da giovane.
Io scrivo e pubblico i miei romanzi in italiano. Qualsiasi vicenda racconti e dovunque essa sia ambientata, per spazio e tempo, la racconto con mente italiana e prima di tutto a un pubblico italiano. Le traduzioni estere mi fanno contento, ma è dentro i nostri confini che devo avviare il successo. L’industria editoriale e culturale di massa italiana è il mio ambiente professionale di riferimento.
Milito attivamente nel Partito Democratico italiano. Che ho ritenuto la naturale e felice conclusione di una storia iniziata quasi centotrenta anni fa con l’elezione a deputato di Andrea Costa. Io mi sento discendente suo e di Romolo Murri. E se esistesse ancora, voterei per il Partito d’Azione. I miei maggiori politici si trovano dalle parti di Salvemini, Gobetti, fratelli Rosselli, Giustizia e Libertà. Una tradizione pienamente italiana di tensione etica e rigore civico.
L’italianità ha filtrato ogni spunto “pubblico” di sardità. Brigata Sassari che sfila a Vicenza, Emilio Lussu che si batte contro Mussolini, politici da Gramsci a Cossiga, banditismo a Orgosolo, petrolchimico, Cagliari scudettato. Tutto ciò che di buono o cattivo la Sardegna ha prodotto io l’ho sempre visto e interpretato in chiave italiana.
Tutti questi fattori si sono sommati e hanno agito, lentamente ma implacabilmente, dentro di me nel corso dei miei quarantacinque anni di vita.
Io sono italiano. Senza dubbio mi sento italiano.
E vivo da italiano con la testa e con il cuore.
Da molto tempo, però, questa mia identità è messa a rischio. Fortunatamente, perché nessun individuo è un monolito inscalfibile.
E tutto ciò che è dato può essere mutato...
Sono stato battezzato e unito ancora incosciente alla fede cristiana cattolica. Fede di Roma, dunque orgoglio d’Italia. Felice di appartenere a un credo che sapevo universale ma che aveva pur sempre il centro nel mio paese. Obbediente a un magistero originatosi a Roma e che si irradiava da lì sul mondo intero.
Da che io ricordi, mio padre e mia madre mi hanno sempre detto che sono italiano.
A casa e poi in classe mi è stato insegnato l’italiano. Una lingua non informa semplicemente, ma forma chi in essa viene educato e io sono cresciuto dentro un mare di significanti e significati italiani. Alla visione del mondo “italiana” si sono adeguati la mia coscienza e i miei rapporti esterni, personali e materiali.
Da piccolo, frequentavo una scuola privata in cui l’alzabandiera era usuale. Con accompagnamento della Canzone del Piave. E sono cresciuto nel culto di quella battaglia e degli eroi che diedero la vita per difendere la patria.
Storia, letteratura, scienza, arte: tutta l’istruzione di base mi è stata impartita in chiave italiana. I successi italiani nei campi del sapere e dell’agire sono diventati i miei successi, le sconfitte italiane le mie sconfitte. Ho imparato a ragionare e misurare la mia statura di individuo dotato di identità nazionale sul metro dell’identità nazionale italiana. Nella convinzione assoluta che un popolo italiano, che una nazione italiana esistano. E che i sardi ne facciano parte. Dunque, oggi, se l’Italia va bene anche io vado bene. Se l’Italia va male anche io vado male.
Io scrivo in italiano per le scuole italiane. I ragazzi apprendono dai miei libri la storia italiana, la geografia italiana, il valore della costituzione italiana. Una logica chiusura del cerchio rispetto a quanto ho sperimentato da giovane.
Io scrivo e pubblico i miei romanzi in italiano. Qualsiasi vicenda racconti e dovunque essa sia ambientata, per spazio e tempo, la racconto con mente italiana e prima di tutto a un pubblico italiano. Le traduzioni estere mi fanno contento, ma è dentro i nostri confini che devo avviare il successo. L’industria editoriale e culturale di massa italiana è il mio ambiente professionale di riferimento.
Milito attivamente nel Partito Democratico italiano. Che ho ritenuto la naturale e felice conclusione di una storia iniziata quasi centotrenta anni fa con l’elezione a deputato di Andrea Costa. Io mi sento discendente suo e di Romolo Murri. E se esistesse ancora, voterei per il Partito d’Azione. I miei maggiori politici si trovano dalle parti di Salvemini, Gobetti, fratelli Rosselli, Giustizia e Libertà. Una tradizione pienamente italiana di tensione etica e rigore civico.
L’italianità ha filtrato ogni spunto “pubblico” di sardità. Brigata Sassari che sfila a Vicenza, Emilio Lussu che si batte contro Mussolini, politici da Gramsci a Cossiga, banditismo a Orgosolo, petrolchimico, Cagliari scudettato. Tutto ciò che di buono o cattivo la Sardegna ha prodotto io l’ho sempre visto e interpretato in chiave italiana.
Tutti questi fattori si sono sommati e hanno agito, lentamente ma implacabilmente, dentro di me nel corso dei miei quarantacinque anni di vita.
Io sono italiano. Senza dubbio mi sento italiano.
E vivo da italiano con la testa e con il cuore.
Da molto tempo, però, questa mia identità è messa a rischio. Fortunatamente, perché nessun individuo è un monolito inscalfibile.
E tutto ciò che è dato può essere mutato...
sabato 17 ottobre 2009
un'altra africa
Venerdì 15 ottobre si è tenuta a Sulbiate, in provincia di Monza-Brianza, una serata di presentazione del nostro ultimo romanzo: "il sogno del bambino stregone".
Una piccola folla ha invaso l'aula conferenze della locale scuola media e le due voci di luca crippa e stefano allovio - scrittore il primo, antropologo e professore universitario il secondo - hanno parlato al pubblico di un'africa di cui non si parla mai.
Noi europei guardiamo a quel continente con un misto di senso di colpa di ex (e mai del tutto ex) colonizzatori, di simpatia, di indulgenza, di pena, di rifiuto. La storia raccontata nel libro è ispirata a un caso vero e illustra la realtà di migliaia di bambini respinti dalla propria famiglia perché accusati di essere stregoni. Sono atteggiamenti che provocano il nostro stupore e innescano una faticosa ricerca di spiegazione.
Ma quella gente chiede anzitutto di essere ascoltata, e non giudicata. E' lo stesso per ciascuno di noi, per le nostre contraddizioni più profonde. Così chi ha partecipato alla presentazione ha colto una buona occasione per ascoltare e si è fatto prendere da un pizzico di "mal d'Africa": il fascino per la diversità più sconcertante, la vertigine di abissi non immediatamente misurabili, il dovere di avvicinarsi con semplicità agli africani mostrando sinceramente noi stessi come loro mostrano quanto possono e vogliono di sé. Affidando al tempo, all'amore, la risposta a tante domande.
Era anche la serata in cui sono state ricordate molte figure di missionari impegnati per il bene dei più poveri del Congo, a cominciare dai bambini: una presenza costante, discreta. Una porta aperta, anche per gli africani, sul mistero di un'accoglienza incondizionata e gratuita che piano piano cambia il mondo.
giovedì 15 ottobre 2009
la parola "sacro" e il tango/1
estate del 1987. mi trovavo a tarcento, in friuli. la cittadina era fresca di ricostruzione post-terremoto. sembrava, in certe vie del centro, una località austriaca: case nuovissime (ahimè), fiori sui balconi. appena intorno, comunque, ricordo i lunghi stradoni pieni di capannoni industriali e centri commerciali, da lì fino a udine e ritorno, così come oggi in tante aree d'italia.
in città si teneva, da anni, un festival delle danze popolari. non so se si faccia ancora, era un'iniziativa molto bella.
una domenica, proprio in quel periodo, vado a messa nella parrocchia centrale. la solita liturgia così così, con un coro così così, una predica così così e intorno a me le facce serie di chi sta rispettando il precetto e l'impazienza dei bambini.
nelle prime file notavo vesti colorate e curiosi copricapi femminili.
quasi alla fine della cerimonia tutto si spiega: una parte dei ballerini giunti dall'argentina, dal messico, dall'africa, avevano voluto partecipare alla messa in costume tradizionale. il parroco spiegò la cosa, ricordò l'iniziativa in corso in città e disse qualcosa sull'amicizia tra i popoli.
poi il miracolo.
il prete disse anche che come omaggio ai presenti e a dio una coppia di ballerini avrebbe eseguito, in segno di ringraziamento e prima della benedizione finale, una danza intorno all'altare ormai spoglio. ci sedemmo. forse qualcuno sbirciò l'orologio: era l'ora degli aperitivi e del solito pranzo domenicale in famiglia.
ma i due che si alzarono e avanzarono verso l'altare erano ballerini di tango.
una fisarmonica attaccò e l'uomo e la donna si avvinghiarono in una danza dolcissima e sensuale. ruotarono, si strinsero, si lasciarono, si inseguirono, si sfiorarono. occuparono così, proprio così, per un lungo momento che per me non è mai finito, il posto del sacerdote. celebrarono davanti ai nostri sguardi stupiti, nel nostro orecchio incantato, nell'emozione che ti entrava nella pancia, qualcosa di eterno.
qualcosa di "sacro".
infine si inchinarono, fieri, bellissimi, mano nella mano, e ricevettero una tremolante benedizione.
mi emozionai tantissimo. io, credente da sempre, ebbi finalmente una rivelazione.
da quel pomeriggio cominciai a studiare la bibbia sul serio. e decisi che quel che vi era scritto doveva centrare con la magia di quella danza o dovevo abbandonarlo per sempre.
oggi, dopo 22 anni di quello studio, leggo la bibbia in pubblico cercando di convincere chi mi ascolta che la chiave ermeneutica per comprenderla è il tango.
qualcuno mi mandi una sua immagine del "sacro" e la leggeremo insieme.
in città si teneva, da anni, un festival delle danze popolari. non so se si faccia ancora, era un'iniziativa molto bella.
una domenica, proprio in quel periodo, vado a messa nella parrocchia centrale. la solita liturgia così così, con un coro così così, una predica così così e intorno a me le facce serie di chi sta rispettando il precetto e l'impazienza dei bambini.
nelle prime file notavo vesti colorate e curiosi copricapi femminili.
quasi alla fine della cerimonia tutto si spiega: una parte dei ballerini giunti dall'argentina, dal messico, dall'africa, avevano voluto partecipare alla messa in costume tradizionale. il parroco spiegò la cosa, ricordò l'iniziativa in corso in città e disse qualcosa sull'amicizia tra i popoli.
poi il miracolo.
il prete disse anche che come omaggio ai presenti e a dio una coppia di ballerini avrebbe eseguito, in segno di ringraziamento e prima della benedizione finale, una danza intorno all'altare ormai spoglio. ci sedemmo. forse qualcuno sbirciò l'orologio: era l'ora degli aperitivi e del solito pranzo domenicale in famiglia.
ma i due che si alzarono e avanzarono verso l'altare erano ballerini di tango.
una fisarmonica attaccò e l'uomo e la donna si avvinghiarono in una danza dolcissima e sensuale. ruotarono, si strinsero, si lasciarono, si inseguirono, si sfiorarono. occuparono così, proprio così, per un lungo momento che per me non è mai finito, il posto del sacerdote. celebrarono davanti ai nostri sguardi stupiti, nel nostro orecchio incantato, nell'emozione che ti entrava nella pancia, qualcosa di eterno.
qualcosa di "sacro".
infine si inchinarono, fieri, bellissimi, mano nella mano, e ricevettero una tremolante benedizione.
mi emozionai tantissimo. io, credente da sempre, ebbi finalmente una rivelazione.
da quel pomeriggio cominciai a studiare la bibbia sul serio. e decisi che quel che vi era scritto doveva centrare con la magia di quella danza o dovevo abbandonarlo per sempre.
oggi, dopo 22 anni di quello studio, leggo la bibbia in pubblico cercando di convincere chi mi ascolta che la chiave ermeneutica per comprenderla è il tango.
qualcuno mi mandi una sua immagine del "sacro" e la leggeremo insieme.
mercoledì 14 ottobre 2009
premio nobel al bar
ordino il caffè e il barista si dà subito da fare. penso alla giornata: non sarà facile convincere l'editore per cui stiamo lavorando in questo periodo a cambiare idea su alcune modifiche a un nuovo manuale per insegnare storia alle medie.
un tizio accanto a me mi distrae dai miei piani.
"il nobel per la pace! avevano bisogno di fare notizia e danno il nobel a uno che dice di non aver ancora fatto niente per averlo!".
il barista sorride alla battuta. è d'accordo con chiunque per dovere d'ufficio.
ma io una cosa bella fatta da Obama me la ricordo spesso, in queste settimane. e allora parlo.
"una cosa buona l'ha fatta..."
"cioè?".
"ha parlato al cairo, un paio di mesi fa, agli islamici. ha detto esplicitamente che non c'è pace se non si difendono la libertà religiosa e i diritti delle donne".
una faccia perplessa mi guarda bene per capire se sto cercando di fare propaganda. sorrido. non sono un fan di nessuno, per partito preso. ma andare in casa degli islamici e dire che dobbiamo essere liberi di praticare la nostra religione ovunque e che le donne sono esseri umani come gli uomini non è così scontato.
"non sono cose facili da dire ai musulmani in casa loro", insisto.
"parole!", sentenzia l'amico. chissà che idea ha, lui, dell'agire di un politico sulla scena internazionale: che fa? se non lo ascoltano spara? allora sì addio al nobel per la pace!
esco dal bar. mi interrogo. si può, si deve fare un mondo migliore proprio cominciando con le giuste parole dette con semplicità?
e il premio nobel a Obama merita di essere smentito al bar?
chi si ricorda qualche altra cosa buona fatta da lui, e prima di tutto detta, che gli merita un premio?
e per quale parola davvero coraggiosa e innovativa un italiano premierebbe oggi uno (qualsiasi) dei suoi politici?
un tizio accanto a me mi distrae dai miei piani.
"il nobel per la pace! avevano bisogno di fare notizia e danno il nobel a uno che dice di non aver ancora fatto niente per averlo!".
il barista sorride alla battuta. è d'accordo con chiunque per dovere d'ufficio.
ma io una cosa bella fatta da Obama me la ricordo spesso, in queste settimane. e allora parlo.
"una cosa buona l'ha fatta..."
"cioè?".
"ha parlato al cairo, un paio di mesi fa, agli islamici. ha detto esplicitamente che non c'è pace se non si difendono la libertà religiosa e i diritti delle donne".
una faccia perplessa mi guarda bene per capire se sto cercando di fare propaganda. sorrido. non sono un fan di nessuno, per partito preso. ma andare in casa degli islamici e dire che dobbiamo essere liberi di praticare la nostra religione ovunque e che le donne sono esseri umani come gli uomini non è così scontato.
"non sono cose facili da dire ai musulmani in casa loro", insisto.
"parole!", sentenzia l'amico. chissà che idea ha, lui, dell'agire di un politico sulla scena internazionale: che fa? se non lo ascoltano spara? allora sì addio al nobel per la pace!
esco dal bar. mi interrogo. si può, si deve fare un mondo migliore proprio cominciando con le giuste parole dette con semplicità?
e il premio nobel a Obama merita di essere smentito al bar?
chi si ricorda qualche altra cosa buona fatta da lui, e prima di tutto detta, che gli merita un premio?
e per quale parola davvero coraggiosa e innovativa un italiano premierebbe oggi uno (qualsiasi) dei suoi politici?
martedì 13 ottobre 2009
un sardus pater che non ne vuole sapere/2
ecco cosa mi insegna l’incontro con paolo. e a quali conclusioni arrivo partendo da esso.
la modernità investe noi e tutti i nostri conterranei. la parte maggiore se ne lascia semplicemente travolgere. i più smaliziati ne approfittano per migliorare le proprie condizioni materiali di vita. solo pochi sfruttano l’interazione col mondo allo scopo di allargare la propria coscienza e aggiungere, al buono già presente nella cultura di origine, il buono (quando c’è, quel che c’è) della cultura globalizzata.
in molti conterranei la percezione dell’esistenza di una nazione sarda è vaga, quasi impalpabile.
abbiamo da fare un lungo e paziente lavoro sulle coscienze.
per quanto lavoro si possa svolgere, è illusorio sperare di “convertire” tutte le coscienze. ma date le radicali democraticità e non violenza del movimento, non si può certo pensare di fare l’indipendenza “contro” i sardi. sarà necessaria la volontà positiva della maggioranza dei sardi: quel giorno, si proclamerà l’indipendenza “nonostante” la volontà contraria della minoranza dei sardi.
è possibile, in alternativa, che l’indipendenza arrivi per il convenire di circostanze storiche e politiche maturate altrove. sarebbe spinta dalla volontà di una buona parte dei sardi, anche se non dalla loro maggioranza, e fiorirebbe a roma, a bruxelles, a new york. diverrebbe il frutto di tempi in cui il governo di un grande stato quale è l’italia ha l’obbligo “morale” di ammettere l’autodeterminazione di una parte dei suoi cittadini. e i sardi sarebbero gli ospiti d’onore di una festa organizzata per loro da altri.
la conquista o la concessione dell’indipendenza non basteranno comunque a fare una sardegna di uomini liberi. e dei sardi i protagonisti della loro stessa storia.
se non vogliamo vedere una sardegna indipendente e, allo stesso tempo, vittima di un neocolonialismo all’africana - economico, politico e culturale - dovremo lavorare ancora e di più sui cuori e sulle teste.
e così il cerchio si chiude.
la rincorsa tra indipendenza e maturazione delle coscienze non ha una vincitrice.
l’indipendenza ha bisogno di una coscienza matura. la coscienza matura ha bisogno dell’indipendenza per crescere ancora e fortificarsi. ma entrambe si impegnano in un cammino che non prevede fine.
non saranno mai interamente realizzate, perché ogni giorno nasce un nuovo sardo che ancora ha da costruire dentro di sé la propria indipendenza e la propria coscienza nazionale.
entrambe sono già tra noi. esistono già, nei sardi che hanno conquistato indipendenza di giudizio e azione, e coscienza della propria identità.
il nostro cammino si situa tra questi due estremi.
l’indipendenza politica è solo una tappa di un disegno più ambizioso. fare dei sardi dei cittadini del mondo a pieno titolo.
la modernità investe noi e tutti i nostri conterranei. la parte maggiore se ne lascia semplicemente travolgere. i più smaliziati ne approfittano per migliorare le proprie condizioni materiali di vita. solo pochi sfruttano l’interazione col mondo allo scopo di allargare la propria coscienza e aggiungere, al buono già presente nella cultura di origine, il buono (quando c’è, quel che c’è) della cultura globalizzata.
in molti conterranei la percezione dell’esistenza di una nazione sarda è vaga, quasi impalpabile.
abbiamo da fare un lungo e paziente lavoro sulle coscienze.
per quanto lavoro si possa svolgere, è illusorio sperare di “convertire” tutte le coscienze. ma date le radicali democraticità e non violenza del movimento, non si può certo pensare di fare l’indipendenza “contro” i sardi. sarà necessaria la volontà positiva della maggioranza dei sardi: quel giorno, si proclamerà l’indipendenza “nonostante” la volontà contraria della minoranza dei sardi.
è possibile, in alternativa, che l’indipendenza arrivi per il convenire di circostanze storiche e politiche maturate altrove. sarebbe spinta dalla volontà di una buona parte dei sardi, anche se non dalla loro maggioranza, e fiorirebbe a roma, a bruxelles, a new york. diverrebbe il frutto di tempi in cui il governo di un grande stato quale è l’italia ha l’obbligo “morale” di ammettere l’autodeterminazione di una parte dei suoi cittadini. e i sardi sarebbero gli ospiti d’onore di una festa organizzata per loro da altri.
la conquista o la concessione dell’indipendenza non basteranno comunque a fare una sardegna di uomini liberi. e dei sardi i protagonisti della loro stessa storia.
se non vogliamo vedere una sardegna indipendente e, allo stesso tempo, vittima di un neocolonialismo all’africana - economico, politico e culturale - dovremo lavorare ancora e di più sui cuori e sulle teste.
e così il cerchio si chiude.
la rincorsa tra indipendenza e maturazione delle coscienze non ha una vincitrice.
l’indipendenza ha bisogno di una coscienza matura. la coscienza matura ha bisogno dell’indipendenza per crescere ancora e fortificarsi. ma entrambe si impegnano in un cammino che non prevede fine.
non saranno mai interamente realizzate, perché ogni giorno nasce un nuovo sardo che ancora ha da costruire dentro di sé la propria indipendenza e la propria coscienza nazionale.
entrambe sono già tra noi. esistono già, nei sardi che hanno conquistato indipendenza di giudizio e azione, e coscienza della propria identità.
il nostro cammino si situa tra questi due estremi.
l’indipendenza politica è solo una tappa di un disegno più ambizioso. fare dei sardi dei cittadini del mondo a pieno titolo.
lunedì 12 ottobre 2009
un sardus pater che non ne vuole sapere/1
circa un anno e mezzo fa, nel periodo pasquale, sbarco in sardegna per camminare sul sentiero selvaggio.
sbarco in compagnia di un gruppo di continentali di varia residenza, tutti aderenti ad una associazione chiamata trekking italia. Svolti i necessari preparativi, partiamo al lunedì da cala gonone e arriviamo al venerdì a santa maria navarrese, dopo parecchio sterrato e diverse notti passate sotto le stelle.
tutto molto bello e soddisfacente. Il camminare in sé, il mangiare, la compagnia, il paesaggio. un’esperienza gratificante.
la nostra guida locale si chiama paolo, fondatore e gestore di una cooperativa impegnata nel settore turistico insieme a un socio di nome salvatore.
l’incontro con paolo mi causa un piccolo shock culturale e mi offre una fonte di meditazione.
paolo ha cinquant’anni ed è il primo della sua famiglia ad aver compiuto una scelta professionale alternativa alla pastorizia. il padre porta ancora al pascolo le greggi. il legame di Paolo e del suo socio con il mondo degli avi emerge da mille particolari: lingua, mentalità, rapporto con l’ambiente. non a caso, l’ultima notte la passiamo in un loro ovile. o meglio, ex ovile adattato all’accoglienza dei clienti.
paolo e salvatore fanno questo mestiere da quasi vent’anni e mi porgono un’immagine di sardo e di sardegna per me assolutamente inaspettata. quando io ho lasciato l’isola nessuno parlava di trek ed era impensabile che un ogliastrino duro e puro si imbarcasse in un’iniziativa imprenditoriale così ardua. i due soci lavorano infatti prevalentemente con i non sardi. tra loro, molti stranieri: giovani che si arrampicano sulle rocce di cala luna o di cala goloritzé. nell’insieme, paolo e salvatore mi sembrano un prodotto felice della globalizzazione. lì, sulla terra del sentiero selvaggio, hanno trovato il modo di conciliare le esigenze aziendali e del turismo con quelle della natura, di aprirsi al mondo e proiettarsi nel futuro tenendo ben saldi i piedi nel passato.
difficilmente, però, quand’anche fa un salto, la storia salta a piedi uniti.
nel corso delle lunghe ore di cammino comune, parlo molto e litigo con paolo.
provo d’istinto un grande rispetto per lui. so che, secondo le ricerche genetiche più recenti, il suo dna presenta una corrispondenza eccezionale, pari fino al 40%, con il dna dei nostri antenati nuragici. romanticamente penso che, se c’è tra noi un sardus pater, questi è proprio la guida dell’ogliastra.
fatto è che paolo non ne vuole sapere.
il suo discorso è una sola, ininterrotta recriminazione contro i forestieri. tra i quali ci sono pure io: come cagliaritano, si rifiuta ostinatamente di considerarmi sardo. a partire dall’editto sulle chiudende del 1820, sembra che per lui chi ha amministrato la sardegna abbia fatto solo danni. si vanta di non pagare le bollette della luce e del telefono, a quanto pare servizi dovuti. e scuote la testa quando gli chiedo se un giorno la sardegna sarà indipendente. dice che è assolutamente impossibile. che i sardi sono troppo individualisti e disuniti. e ammette che lui sarebbe il primo a remare contro.
insomma, più che un sardus pater, paolo finisce per presentarsi a me come un urano divoratore dei propri figli.
una contraddizione sulla quale, per raccapezzarmi, devo riflettere a lungo...
sbarco in compagnia di un gruppo di continentali di varia residenza, tutti aderenti ad una associazione chiamata trekking italia. Svolti i necessari preparativi, partiamo al lunedì da cala gonone e arriviamo al venerdì a santa maria navarrese, dopo parecchio sterrato e diverse notti passate sotto le stelle.
tutto molto bello e soddisfacente. Il camminare in sé, il mangiare, la compagnia, il paesaggio. un’esperienza gratificante.
la nostra guida locale si chiama paolo, fondatore e gestore di una cooperativa impegnata nel settore turistico insieme a un socio di nome salvatore.
l’incontro con paolo mi causa un piccolo shock culturale e mi offre una fonte di meditazione.
paolo ha cinquant’anni ed è il primo della sua famiglia ad aver compiuto una scelta professionale alternativa alla pastorizia. il padre porta ancora al pascolo le greggi. il legame di Paolo e del suo socio con il mondo degli avi emerge da mille particolari: lingua, mentalità, rapporto con l’ambiente. non a caso, l’ultima notte la passiamo in un loro ovile. o meglio, ex ovile adattato all’accoglienza dei clienti.
paolo e salvatore fanno questo mestiere da quasi vent’anni e mi porgono un’immagine di sardo e di sardegna per me assolutamente inaspettata. quando io ho lasciato l’isola nessuno parlava di trek ed era impensabile che un ogliastrino duro e puro si imbarcasse in un’iniziativa imprenditoriale così ardua. i due soci lavorano infatti prevalentemente con i non sardi. tra loro, molti stranieri: giovani che si arrampicano sulle rocce di cala luna o di cala goloritzé. nell’insieme, paolo e salvatore mi sembrano un prodotto felice della globalizzazione. lì, sulla terra del sentiero selvaggio, hanno trovato il modo di conciliare le esigenze aziendali e del turismo con quelle della natura, di aprirsi al mondo e proiettarsi nel futuro tenendo ben saldi i piedi nel passato.
difficilmente, però, quand’anche fa un salto, la storia salta a piedi uniti.
nel corso delle lunghe ore di cammino comune, parlo molto e litigo con paolo.
provo d’istinto un grande rispetto per lui. so che, secondo le ricerche genetiche più recenti, il suo dna presenta una corrispondenza eccezionale, pari fino al 40%, con il dna dei nostri antenati nuragici. romanticamente penso che, se c’è tra noi un sardus pater, questi è proprio la guida dell’ogliastra.
fatto è che paolo non ne vuole sapere.
il suo discorso è una sola, ininterrotta recriminazione contro i forestieri. tra i quali ci sono pure io: come cagliaritano, si rifiuta ostinatamente di considerarmi sardo. a partire dall’editto sulle chiudende del 1820, sembra che per lui chi ha amministrato la sardegna abbia fatto solo danni. si vanta di non pagare le bollette della luce e del telefono, a quanto pare servizi dovuti. e scuote la testa quando gli chiedo se un giorno la sardegna sarà indipendente. dice che è assolutamente impossibile. che i sardi sono troppo individualisti e disuniti. e ammette che lui sarebbe il primo a remare contro.
insomma, più che un sardus pater, paolo finisce per presentarsi a me come un urano divoratore dei propri figli.
una contraddizione sulla quale, per raccapezzarmi, devo riflettere a lungo...
sabato 10 ottobre 2009
il nostro nuovo romanzo
Il romanzo Il sogno del bambino stregone è l'ultima nostra fatica. io e luca l'abbiamo scritto la scorsa primavera e piemme l'ha pubblicato alla fine di agosto, sotto lo pseudonimo luca castellitto. lo si trova in tutte le librerie e nella grande distribuzione. è ambientato in congo e racconta una storia vera: quella del piccolo michel, bimbo che rischia la vita perché ritenuto stregone dagli adulti. ecco il testo della quarta di copertina.
«Intabarrato in una coperta consunta che lascia trasparire solo gli occhi, un bimbo si alza dalla panca che ha eletto a giaciglio. Non ha ancora dieci anni. Intorno a lui, una decina di compagni continuano i loro sogni agitati. Ogni sera il brulicante mercato di Kinshasa diventa dormitorio per un esercito di ragazzini. Si aggirano in cerca di cibo, si abbandonano stremati.
Molti, come Michel, sono stati cacciati di casa con un’accusa gravissima e ridicola al tempo stesso: quella di essere stregoni, degli ndoki, che trascinano il malocchio sul tetto familiare. Capro espiatorio perfetto, che si nutre dell’istigazione delle sette che proliferano per il paese: il bimbo troppo irruente o troppo silenzioso, quello che ancora fa la pipì a letto o che rifiuta il cibo è bollato. Ogni evento negativo che coinvolga la famiglia, anche il più insulso, gli verrà addebitato, fino a che non sarà messo alla porta. Ma non prima di aver subito umiliazioni, violenze, crudeli esorcismi.
Quella di Michel è una storia commovente, incredibile, eppure simile a quella di molti altri bambini. Ma è anche una storia di speranza perché, in una notte terribile, Michel incontra Sylvie, e con lei una nuova vita. Un racconto che colpisce al cuore. Una voce che ci chiede di essere ascoltata».
Molti, come Michel, sono stati cacciati di casa con un’accusa gravissima e ridicola al tempo stesso: quella di essere stregoni, degli ndoki, che trascinano il malocchio sul tetto familiare. Capro espiatorio perfetto, che si nutre dell’istigazione delle sette che proliferano per il paese: il bimbo troppo irruente o troppo silenzioso, quello che ancora fa la pipì a letto o che rifiuta il cibo è bollato. Ogni evento negativo che coinvolga la famiglia, anche il più insulso, gli verrà addebitato, fino a che non sarà messo alla porta. Ma non prima di aver subito umiliazioni, violenze, crudeli esorcismi.
Quella di Michel è una storia commovente, incredibile, eppure simile a quella di molti altri bambini. Ma è anche una storia di speranza perché, in una notte terribile, Michel incontra Sylvie, e con lei una nuova vita. Un racconto che colpisce al cuore. Una voce che ci chiede di essere ascoltata».
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