Ho visto The hurt locker, il film di Kathryn Bigelow che al principio di marzo ha vinto sei Oscar, compresi quelli per la migliore pellicola, per la migliore regia e per la migliore sceneggiatura originale. E dire che quando è uscito nelle sale è passato praticamente inosservato. Snobbato dal pubblico, ha incassato pochissimo, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa. Un flop clamorosamente smentito dalla pioggia di premi ricevuti sulle due sponde dell’Atlantico. Chi è del mestiere, insomma, ne ha riconosciuto il valore artistico e spettacolare. Perché abbia lasciato indifferenti gli spettatori è un mistero. La mia ipotesi è che l’Iraq al cinema non interessi nessuno. Non ancora, per lo meno, a guerra ancora in corso e ragioni e torti da capire fino in fondo.
Il film narra la storia di una squadra di artificieri dell’esercito Usa, alle prese ogni giorno con i pericolosissimi ordigni che, nascosti ai lati delle strade e pronti ad esplodere, mettono a rischio la vita di civili e soldati. La macchina da presa segue i protagonisti con lo stile nervoso e adrenalinico che è marchio di fabbrica della Bigelow dai tempi di Point Break, vale a dire da circa vent’anni. E si sofferma soprattutto sul volto, il corpo, le azioni e le emozioni di Will James, sergente e caposquadra, l’uomo che indossa la corazza e concretamente mette le mani nelle bombe, con il compito di disinnescarle. James si muove con baldanza e sicurezza. Sa che basterebbe toccare o troncare il filo sbagliato per saltare in aria. Ma a lui quel lavoro piace e lo fa senza pensarci su due volte, senza mai tirarsi indietro. Tanto che spesso baldanza e sicurezza sembrano arrogante sfida alla morte. Un andarsela a cercare, un rischiare oltre misura e oltre il bisogno per farla finita e dare un taglio a tutto. Con una fine da vero eroe.
La chiusa del film è spiazzante. Dopo averla scampata, al termine di un interminabile anno di servizio, James torna a casa. Dove lo attendono una bella moglie, una meravigliosa figlia e una vita normale. Così normale che il sergente fa dietrofront. Salta su un aereo militare e torna a Baghdad. Le ultime inquadrature lo seguono mentre percorre una strada deserta, protetto dalla sua corazza, andando incontro a una bomba. E al suo destino, qualunque esso sia. Dissolvenza in nero e luci in sala.
Il film è bello. A me è piaciuto molto. In certi passaggi, la Bigelow mi è persino sembrata capace di andare oltre la storia e i personaggi contingenti per afferrare l’essenza di tutto e raccontarci cosa è davvero la guerra. Come sanno fare solo i grandi registi. Come sapeva fare Kubrick: vedi Orizzonti di gloria e Full metal jacket. Tuttavia, ecco la sorpresa. Parte della critica - soprattutto europea - ha condannato la regista, accusando la sua pellicola di cripto fascismo e di incoraggiare gli uomini a combattere e risolvere i loro problemi con la violenza. Fa fede, dicono, quel protagonista che insensatamente rinuncia a una dignitosa vita borghese per tornare ad assaporare il pericolo. Quasi che la guerra fosse una droga, una dolce droga. Insomma, la Bigelow non dà giudizi trancianti, non emette condanne inappellabili, non dice apertamente che la guerra è una merda. Anzi, mantiene una bella dose di ambiguità. E questo a tanti non è piaciuto.
Trovo tale parere irritante. La Bigelow ci dice tutto quello che serve. Che la guerra è malattia, furore, incoscienza, dabbenaggine, stupidità, caso. E non ha bisogno di aggiungere altro per dimostrare che è male. Pretendere da un autore affermazioni più esplicite significa fare dell’ideologia e offendere lo spettatore, giudicato incapace di distinguere da solo, così stupido da doverlo imbottire di verità in pillole. Certo, il protagonista è un guascone indisponente. Ma un guascone disperato, non superomista. E rientra sul campo di battaglia. La guerra l’ha catturato, si è impossessata della sua mente. Ma non vuol dire che la guerra è bella. Forse vuol dire che la vita “normale” è brutta, piatta, monotona, a suo modo più pericolosa per l’animo dell’uomo del teatro dei combattimenti. Questo è il messaggio nascosto della Bigelow. Non è cripto fascismo. È un’amara riflessione sulla nostra incapacità di stare al mondo. E sulla desolazione di questo stesso mondo.
venerdì 16 luglio 2010
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