Circa un anno fa, in prossimità del 25 aprile, scrissi un articolo per il giornale del circolo PD di Saronno, del quale facevo parte. Il pezzo si intitolava “25 aprile contro Grande Fratello” e aveva questo sottotitolo: “Chi vincerà la sfida per l’identità nazionale?”. L’articolo non venne pubblicato perché i miei compagni di partito trovarono la tesi esposta provocatoria e discutibile. Sembrò loro che non stesse affatto bene guardare alla sacrosanta celebrazione resistenziale con occhi disincantati. La nuova e recente batosta presa dalla sinistra alle amministrative dimostra però, a mio parere, che avevo ragione: senza riflettere su se stessi non si elaborano un linguaggio, una visione e un approccio politici capaci di fare breccia tra la gente. Ecco perché propongo oggi quell’articolo. A distanza di un anno, il suo contenuto resta per me valido. Il testo del pezzo è qui di seguito, in corsivo.
È facile immaginare cosa sarebbe accaduto se Silvio Berlusconi, padrone di Mediaset, avesse deciso d’imperio di cancellare dal palinsesto di Canale 5 l’ultima puntata del “Grande Fratello”, andata in onda pochi giorni fa, lunedì 20 aprile. I fan di questa trasmissione, non meno di 5,6 milioni a puntata, avrebbero sommerso di telefonate e messaggi i centralini e il sito Internet della rete televisiva.
Lo stesso Silvio Berlusconi ha per anni rifiutato di fare la sua comparsa durante la festa del 25 aprile. Non solo da capo dell’opposizione, e come tale rappresentante di una sola parte degli italiani. Ma anche da Presidente del Consiglio e, in quanto capo del governo, rappresentante di tutti gli italiani. Ha in questo modo negato l’importanza della festa, cancellandola fisicamente dalla sua agenda e sanzionandone la cancellazione simbolica dal calendario mentale di molti nostri connazionali. Eppure lo scandalo non ha oltrepassato le redazioni dei giornali e i circoli intellettuali di sinistra. Nel comportarsi così Berlusconi ha avuto certamente buon gioco. È come se avesse affermato: posso farlo, anzi è giusto che lo faccia, perché molti italiani la pensano come me e mi danno ragione. È difficile dargli torto. Questa festa ha perso buona parte della sua presa sulle nostre coscienze.
Una festa nazionale è per definizione una festa della nazione. La nazione è la comunità di uomini e donne uniti dalla lingua, dalla cultura, dalle tradizioni e dalle vicende storiche. Non formano passivamente la nazione, non sono iscritti ad essa d’ufficio, non basta l’atto di nascita per appartenervi. Abbiamo una nazione quando uomini e donne si riconoscono nei tanti fattori che li legano, quando formano appunto una comunità. Su tale base è facile capire perché il 25 aprile non susciti negli italiani la passione che il 14 luglio accende nei francesi. Ecco qualche importante motivo.
Primo. Il 25 aprile maturò in una parte d’Italia precisa e limitata. Nella primavera del 1945 gran parte del paese respirava già un clima nuovo e rimase completamente estraneo alle vicende che infiammavano la Pianura Padana. Secondo. Il 25 aprile è la festa della Liberazione dall’occupazione nazifascista: poiché la storia alla lunga non mente, è difficile nascondere che quella liberazione coincise con la peggiore sconfitta militare e le più grandi devastazioni che il nostro paese avesse mai subito. Non è piacevole ricordarlo. Terzo. La Resistenza ebbe il ruolo di comprimario. Affiancò con il suo sacrificio le truppe anglo-americane, senza le quali i tedeschi non sarebbero mai stati cacciati. Nessuno storico serio si azzarderebbe oggi a negare ciò. Quarto. Nella Resistenza italiana erano rappresentate, seppure in diversa misura, tutte le tendenze politiche. Cattolici, azionisti, comunisti, monarchici, liberali, socialisti, persino anarchici: tutti diedero il loro prezioso contributo. Ma nei decenni successivi questa realtà faticò a emergere e via via se ne perse la cognizione. Furono i comunisti, egemoni culturalmente, a fare della Resistenza uno dei punti forti del proprio apparato ideologico e propagandistico. Con questo effetto: che la Resistenza è diventata indigesta a moltissimi, anche tra i suoi iniziali estimatori. Quinto. Molti combatterono dall’altra parte e quella che combatterono fu una guerra civile: anche questo è ormai definito. Non potevano riconoscersi nella vittoria dei loro avversari. Sesto e più importante di tutti. Molti non combatterono affatto, né dall’una né dall’altra parte. È la famosa «zona grigia» in cui si collocò la maggioranza degli italiani, in attesa degli eventi. Superficiale era stata la loro adesione al mussolinismo di guerra, superficiale fu, dopo, la loro adesione ai nuovi miti della Repubblica. E questo ci porta ad altre considerazioni.
C’è chi nega che gli italiani formino una nazione. Perché le differenze di cultura tra le varie popolazioni d’Italia sono saldamente radicate nella storia e rendono ancora oggi un campano assai diverso da un lombardo e un piemontese agli antipodi di un siciliano. E soprattutto perché gli italiani non sono mai stati davvero, in massa, protagonisti della loro storia. Ogni volta che c’è stato bisogno di «fare l’Italia» si sono lasciati trascinare da chi riusciva a mettersi alla loro guida. Fossero gli intellettuali e i borghesi combattenti del Risorgimento, i generali e i politici desiderosi di prestigio della Prima guerra mondiale, i resistenti della Seconda guerra mondiale. Gli italiani hanno appreso che erano italiani, come lo erano diventati e cosa era l’Italia sempre attraverso una narrazione esterna. Giornali, poi televisione, partiti, scuola: molti si sono assunti il compito di questa narrazione, ingolfandola di retorica e termini assoluti. Patria, Libertà, Popolo, Re, Repubblica, Costituzione, Resistenza. Naturalmente, tutto maisucolo. Da qui anche la tripletta di feste nazionali che dovrebbero contribuire, pezzetto per pezzetto, al mosaico della nostra identità: 25 aprile Festa della Liberazione, 2 giugno Festa della Repubblica, 4 novembre Festa della Vittoria. Con la clamorosa mancanza del 20 settembre, fino al fascismo celebrato in nome dell’unità d’Italia e poi abbandonato per opportunismo. Troppe feste, che nell’insieme evidenziano la mancanza di un centro unico e condiviso attorno al quale raccogliere la nazione italiana. Oggi però, lo diciamo provocatoriamente ma con rispetto, questo centro gli italiani se lo sono trovati da soli.
Che cosa sono infatti il “Grande Fratello” e il televoto se non gli strumenti attraverso i quali, settimana dopo settimana, gli italiani modellano e rimodellano l’identità nazionale, creano e ricreano l’italiano tipo, promuovendo e bocciando, ascoltando e giudicando, approvando e litigando? Meglio essere prudenti nel giudizio. Forse si tratta di illusione, forse è tutta finzione manovrata dal network, forse è una caricatura di scelta partecipata. Ma forse no. Forse gli italiani che giocano a tutto questo sono consapevoli dei limiti dell’operazione e vogliono egualmente giocare. Conta di più la voglia di essere protagonisti, in una storia minima, la storia del “Grande Fratello”, ma storia loro, da loro influenzata e condotta. Un ruolo che negli ultimi secoli gli italiani non hanno mai voluto o potuto conquistarsi. Ed ecco che si profila una nuova sfida. Nel futuro prossimo cosa peserà di più nella formazione della nostra identità nazionale? Il “Grande Fratello” o il 25 aprile?
Piero Calamandrei scrisse poco dopo la fine della guerra, a proposito della Resistenza: «Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini». Questo solo conta e questo solo abbiamo il dovere di tramandare oggi e in futuro, affinché il significato del 25 aprile sopravviva alla morte dell’ultimo partigiano e al passare del tempo che oscura ogni cosa. Per vivere da uomini bisogna essere liberi. Per conquistare la libertà e donarla a chi non l’ha bisogna combattere e sacrificarsi. In tempo di pace non meno che in tempo di guerra, quando la minaccia alla democrazia assume forme suadenti e pericolose. L’omologazione sociale e del pensiero non ci priva della libertà fisica ma incatena la nostra mente. Essa rischia oggi di trovarsi prigioniera, mentre il corpo vaga libero per le strade della città. I democratici si guardino da tale rischio, come tutti gli italiani. Chi rifiuterà la sfida o non si mostrerà all’altezza avrà tradito il 25 aprile.
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