Ricerca della verità e libertà hanno molto a che fare l’una con l’altra, in ogni campo della convivenza umana.
È vero per l’arte, la cultura e la scienza: non si raggiungono alte vette espressive, non si esplorano a fondo i meandri dell’animo, non si sondano le leggi costitutive dell’universo se non si è liberi di sperimentare e cercare.
È vero nel campo dei rapporti sociali. Senza libertà, giocata nell’eguaglianza e nel rispetto dei diritti di ognuno, nessun uomo può mostrare agli altri il suo reale volto. E probabilmente vivremmo ancora in un mondo di appartenenze e ceti prescritti alla nascita: un mondo di maschere, dove non ci sarebbe nemmeno concesso decidere quale maschera indossare.
Ambiente di lavoro, famiglia, scuola: oggi possiamo scegliere cosa vogliamo essere e lottare per diventarlo. A guidarci è la ricerca di un’espressione personale più vera e completa. Ricerca che nemmeno inizierebbe se non avessimo ormai radicato dentro il sentimento della nostra libertà. Una libertà costitutiva, definitiva e incoercibile. Una libertà da uomini.
Di tante osservazioni connesse alla tempesta che in queste settimane coinvolge la Chiesa, voglio proporne una attinente alle affermazioni appena fatte.
Non ho motivo di credere che a Roma la ricerca della verità sia possibile, completa e autentica se non accompagnata dalla libertà delle persone che la praticano e del sistema in cui quelle persone agiscono.
Tanto meno credo che, in assenza di tale libertà, la ricerca della verità possa diventare patrimonio dell’intera comunità dei fedeli e dunque “metodo” condiviso per una Chiesa più ricca e feconda.
Questa libertà attualmente non c’è. Non c’è perché il funzionamento della Chiesa si basa su una tradizione bimillenaria che va in direzione opposta. Essa è fondata sull’obbedienza, sul culto della riservatezza e del segreto curiale, sull’ossequio gerarchico, sulla lotta contro ogni voce dissidente, sull’autorità del dogma.
Questi fattori hanno contribuito in misura determinante all’eccezionale longevità della Chiesa stessa ma hanno poco a che vedere con la ricerca di una verità autonoma sulle cose dell’uomo. Sono anzi suoi nemici dichiarati, da sempre: e oggi la verità ufficiale che scende dall’alto non è più sufficiente a tenere coesa l’assemblea dei credenti.
Uomini e donne pretendono da chi li governa un rendiconto delle loro azioni. Questa pratica si chiama democrazia ed è, in politica, ciò che più si avvicina alla realizzazione del principio sopra esposto.
La libertà di scegliersi i governanti è strettamente connessa al compito di questi ultimi: cercare la verità di rapporti sociali più autentici e soddisfacenti per tutti. Dove manca tale libertà, il potere spesso si arrocca in un angolo, con conseguenze deleterie e non di rado tragiche. E pur con tutte le sue brutture, la democrazia è al momento il meglio che abbiamo a disposizione per praticare una libertà degna di questo nome.
Nella Chiesa non c’è democrazia. Alla Chiesa la democrazia serve. Non solo perché viviamo in un’epoca che ha fatto a pezzi il principio gerarchico e dell’insofferenza contro l’autorità un tratto costitutivo. Le serve, molto di più, per dare purezza e autorevolezza al messaggio di Cristo. In pericolo non è, non è stata e non sarà l’esistenza della Chiesa, che è solo messaggera. In pericolo è il messaggio. Le gerarchie ecclesiastiche devono abbracciare la libertà, perché solo una maggiore libertà nella pratica pubblica dei loro compiti permetterà alla Chiesa di incarnare credibilmente il ruolo affidatole da Cristo.
Concludo con una richiesta ai fedeli cattolici. Si facciano sentire. In queste settimane abbiamo ascoltato e visto vescovi e conferenze episcopali fare coming out sulla questione pedofilia. Hanno parlato perché sapevano che la società non avrebbe tollerato ulteriormente il silenzio. E con questa concessione all’opinione pubblica hanno ancora una volta salvato il sistema verticistico di cui fanno parte.
Ma i veri autori della Chiesa sono i fedeli e i fedeli mantengono un clamoroso silenzio. Per conoscenza diretta di sacerdoti e credenti so quanto sia scomodo per molti l’attuale momento e indigesto il comportamento delle gerarchie. Perché questi credenti non parlano? Perché nessun fedele scrive sui muri che sviare, sminuire e mistificare sono contro Cristo? Perché nessuno si alza in chiesa, la domenica, e grida che anche a Roma è possibile una rivoluzione?
sabato 24 aprile 2010
lunedì 19 aprile 2010
Pedofilia e missione della Chiesa
Podifilia di uomini appartenenti al clero cattolico. Se ne parla e si discute.
Ho atteso a lungo, prima di scrivere qualcosa a proposito. Volevo ascoltare, riflettere, capire, valutare. Di solito questi esercizi non sono molto favoriti dallo stile di comunicazione che è maggiormente in uso: le notizie vengono urlate, pochi casi vengono trattati come se fossero la punta di un iceberg e così si evoca un disastro imminente e così via. Di solito ascoltare e dedicare tempo a riflettere e a vedere quali sono le reali dimensioni e implicazioni di un fenomeno porta ad essere più equilibrati, meno aggressivi nel giudizio e così via.
In questo caso, però, la cosa, almeno con me, non ha funzionato. Più si va avanti e più mi arrabbio, più attendo e ascolto e meno capisco.
E non succede solo a me. Sono un credente molto impegnato e ho molti buoni amici sacerdoti. Con diversi di loro c'è un dialogo fraterno e anche un'attiva collaborazione. E allora, solo in questi ultimi giorni, chiacchiero con un sacerdote di Siena e lui si domanda cosa stiano combinando a Roma. Ceno con un parroco di Milano e quello scuote la testa sconsolato. Vado a trovare un sacerdote che vive in un centro di spiritualità che accoglie ogni giorno preti da tutta la Lombardia per pregare, confrontarsi, scambiare esperienze e questo sorride amaro e dice che chi sta in alto sembra proprio aver perso la testa.
Cosa sta succedendo? La scivolata più recente, la goccia che fa traboccare il vaso - in questo caso una cascata -, è stata l'uscita del cardinale Bertone: "Non c'è nesso tra celibato dei preti e pedofilia, piuttosto è dimostrato dagli esperti un nesso tra omosessualità e pedofilia".
Parlava comunque dei preti, ha precisato la sala stampa vaticana, credendo così di mettere a tacere lo scandalo di queste parole sconsiderate.
E i preti comuni, a contatto con la gente, con i credenti normali che restano scandalizzati per la cattiva testimonianza di chi fa del male usando del credito della sua funzione, di chi copre i colpevoli in nome del superiore interesse della Chiesa senza preoccuparsi delle vittime innocenti, di chi si sente parte di uno Stato parallelo che non deve rendere conto alla "giustizia degli uomini" (espressione odiosa: la giustizia è una sola, anche per la Bibbia!), di chi ribatte che "la Chiesa è ancora una volta perseguitata!"... i preti comuni si interrogano.
Ma come? Bertone non è il capo della diplomazia vaticana? L'uomo più onorato ed ascoltato nella Chiesa dopo il papa? Non dovrebbe essere uomo di competenza, di finezza, di profondo senso di rispetto umano?
E giù a rimpiangere il tempo, non troppo lontano, in cui Segretario di Stato era un uomo pacato e rispettoso e discreto di nome Casaroli (con Paolo VI), in tempi in cui la Chiesa soffriva davvero in mezzo mondo persecuzioni odiose, sistematiche e violente, in tempi in cui mezza Europa era stretta da regimi atei e illiberali, in tempi in cui si trattava con delicati equilibri per difendere la libertà religiosa negata insieme alle elementari libertà civili e ai diritti umani.
Allora sì la Chiesa era perseguitata: oggi bastano due titoli sui giornali e il cardinale Segretario di Stato perde la testa e dice sciocchezze, offendendo persone innocenti, insinuando il sospetto, rafforzando il pregiudizio e coprendo, coprendo, con una nube di fumo (immagine diabolica, se lo ricorda?) le colpe dei pochi che si sono macchiati di crimini odiosi.
Ma è tempo di chiedersi se si tratta solo di una questione di diplomazia, di rispetto, di buone maniere, che pure sono tutti atteggiamenti utili a far soffrire di meno gli altri per le proprie mancanze.
E' tempo di chiedersi se il cardinale Bertone e con lui la gran parte degli alti prelati della Chiesa cattolica leggono davvero il Vangelo di Gesù Cristo e se sanno ancora (se mai lo hanno saputo), farsi dare da quel Vangelo lo sguardo, il giudizio, la forma di vita e di mente che fa di un uomo, cardinale o semplice credente, un uomo nuovo.
Questa Chiesa non sta crollando per le persecuzioni dei giornali (nel passato ne ha viste di molto peggiori, ha visto quelle vere...), né per l'impreparazione all'uso dei mezzi di comunicazione di massa dei suoi vecchi capi.
Questa Chiesa crolla quando non sa più perché esiste.
E rinasce, se è questo il suo destino, quando se lo ricorda.
La gente, tutta, senza distinzioni, vive a suo modo la ricerca di senso, di bellezza, di giustizia e di verità. In questo movimento, vasto quanto l'umanità, c'è spazio anche per chi crede. Ma chi dice di credere (e non sa di cosa sta parlando) e della sua presunta fede fa uno strumento di potere, è nemico dell'umanità.
domenica 11 aprile 2010
25 aprile: chi vincerà la battaglia per l'identità degli italiani?
Circa un anno fa, in prossimità del 25 aprile, scrissi un articolo per il giornale del circolo PD di Saronno, del quale facevo parte. Il pezzo si intitolava “25 aprile contro Grande Fratello” e aveva questo sottotitolo: “Chi vincerà la sfida per l’identità nazionale?”. L’articolo non venne pubblicato perché i miei compagni di partito trovarono la tesi esposta provocatoria e discutibile. Sembrò loro che non stesse affatto bene guardare alla sacrosanta celebrazione resistenziale con occhi disincantati. La nuova e recente batosta presa dalla sinistra alle amministrative dimostra però, a mio parere, che avevo ragione: senza riflettere su se stessi non si elaborano un linguaggio, una visione e un approccio politici capaci di fare breccia tra la gente. Ecco perché propongo oggi quell’articolo. A distanza di un anno, il suo contenuto resta per me valido. Il testo del pezzo è qui di seguito, in corsivo.
È facile immaginare cosa sarebbe accaduto se Silvio Berlusconi, padrone di Mediaset, avesse deciso d’imperio di cancellare dal palinsesto di Canale 5 l’ultima puntata del “Grande Fratello”, andata in onda pochi giorni fa, lunedì 20 aprile. I fan di questa trasmissione, non meno di 5,6 milioni a puntata, avrebbero sommerso di telefonate e messaggi i centralini e il sito Internet della rete televisiva.
Lo stesso Silvio Berlusconi ha per anni rifiutato di fare la sua comparsa durante la festa del 25 aprile. Non solo da capo dell’opposizione, e come tale rappresentante di una sola parte degli italiani. Ma anche da Presidente del Consiglio e, in quanto capo del governo, rappresentante di tutti gli italiani. Ha in questo modo negato l’importanza della festa, cancellandola fisicamente dalla sua agenda e sanzionandone la cancellazione simbolica dal calendario mentale di molti nostri connazionali. Eppure lo scandalo non ha oltrepassato le redazioni dei giornali e i circoli intellettuali di sinistra. Nel comportarsi così Berlusconi ha avuto certamente buon gioco. È come se avesse affermato: posso farlo, anzi è giusto che lo faccia, perché molti italiani la pensano come me e mi danno ragione. È difficile dargli torto. Questa festa ha perso buona parte della sua presa sulle nostre coscienze.
Una festa nazionale è per definizione una festa della nazione. La nazione è la comunità di uomini e donne uniti dalla lingua, dalla cultura, dalle tradizioni e dalle vicende storiche. Non formano passivamente la nazione, non sono iscritti ad essa d’ufficio, non basta l’atto di nascita per appartenervi. Abbiamo una nazione quando uomini e donne si riconoscono nei tanti fattori che li legano, quando formano appunto una comunità. Su tale base è facile capire perché il 25 aprile non susciti negli italiani la passione che il 14 luglio accende nei francesi. Ecco qualche importante motivo.
Primo. Il 25 aprile maturò in una parte d’Italia precisa e limitata. Nella primavera del 1945 gran parte del paese respirava già un clima nuovo e rimase completamente estraneo alle vicende che infiammavano la Pianura Padana. Secondo. Il 25 aprile è la festa della Liberazione dall’occupazione nazifascista: poiché la storia alla lunga non mente, è difficile nascondere che quella liberazione coincise con la peggiore sconfitta militare e le più grandi devastazioni che il nostro paese avesse mai subito. Non è piacevole ricordarlo. Terzo. La Resistenza ebbe il ruolo di comprimario. Affiancò con il suo sacrificio le truppe anglo-americane, senza le quali i tedeschi non sarebbero mai stati cacciati. Nessuno storico serio si azzarderebbe oggi a negare ciò. Quarto. Nella Resistenza italiana erano rappresentate, seppure in diversa misura, tutte le tendenze politiche. Cattolici, azionisti, comunisti, monarchici, liberali, socialisti, persino anarchici: tutti diedero il loro prezioso contributo. Ma nei decenni successivi questa realtà faticò a emergere e via via se ne perse la cognizione. Furono i comunisti, egemoni culturalmente, a fare della Resistenza uno dei punti forti del proprio apparato ideologico e propagandistico. Con questo effetto: che la Resistenza è diventata indigesta a moltissimi, anche tra i suoi iniziali estimatori. Quinto. Molti combatterono dall’altra parte e quella che combatterono fu una guerra civile: anche questo è ormai definito. Non potevano riconoscersi nella vittoria dei loro avversari. Sesto e più importante di tutti. Molti non combatterono affatto, né dall’una né dall’altra parte. È la famosa «zona grigia» in cui si collocò la maggioranza degli italiani, in attesa degli eventi. Superficiale era stata la loro adesione al mussolinismo di guerra, superficiale fu, dopo, la loro adesione ai nuovi miti della Repubblica. E questo ci porta ad altre considerazioni.
C’è chi nega che gli italiani formino una nazione. Perché le differenze di cultura tra le varie popolazioni d’Italia sono saldamente radicate nella storia e rendono ancora oggi un campano assai diverso da un lombardo e un piemontese agli antipodi di un siciliano. E soprattutto perché gli italiani non sono mai stati davvero, in massa, protagonisti della loro storia. Ogni volta che c’è stato bisogno di «fare l’Italia» si sono lasciati trascinare da chi riusciva a mettersi alla loro guida. Fossero gli intellettuali e i borghesi combattenti del Risorgimento, i generali e i politici desiderosi di prestigio della Prima guerra mondiale, i resistenti della Seconda guerra mondiale. Gli italiani hanno appreso che erano italiani, come lo erano diventati e cosa era l’Italia sempre attraverso una narrazione esterna. Giornali, poi televisione, partiti, scuola: molti si sono assunti il compito di questa narrazione, ingolfandola di retorica e termini assoluti. Patria, Libertà, Popolo, Re, Repubblica, Costituzione, Resistenza. Naturalmente, tutto maisucolo. Da qui anche la tripletta di feste nazionali che dovrebbero contribuire, pezzetto per pezzetto, al mosaico della nostra identità: 25 aprile Festa della Liberazione, 2 giugno Festa della Repubblica, 4 novembre Festa della Vittoria. Con la clamorosa mancanza del 20 settembre, fino al fascismo celebrato in nome dell’unità d’Italia e poi abbandonato per opportunismo. Troppe feste, che nell’insieme evidenziano la mancanza di un centro unico e condiviso attorno al quale raccogliere la nazione italiana. Oggi però, lo diciamo provocatoriamente ma con rispetto, questo centro gli italiani se lo sono trovati da soli.
Che cosa sono infatti il “Grande Fratello” e il televoto se non gli strumenti attraverso i quali, settimana dopo settimana, gli italiani modellano e rimodellano l’identità nazionale, creano e ricreano l’italiano tipo, promuovendo e bocciando, ascoltando e giudicando, approvando e litigando? Meglio essere prudenti nel giudizio. Forse si tratta di illusione, forse è tutta finzione manovrata dal network, forse è una caricatura di scelta partecipata. Ma forse no. Forse gli italiani che giocano a tutto questo sono consapevoli dei limiti dell’operazione e vogliono egualmente giocare. Conta di più la voglia di essere protagonisti, in una storia minima, la storia del “Grande Fratello”, ma storia loro, da loro influenzata e condotta. Un ruolo che negli ultimi secoli gli italiani non hanno mai voluto o potuto conquistarsi. Ed ecco che si profila una nuova sfida. Nel futuro prossimo cosa peserà di più nella formazione della nostra identità nazionale? Il “Grande Fratello” o il 25 aprile?
Piero Calamandrei scrisse poco dopo la fine della guerra, a proposito della Resistenza: «Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini». Questo solo conta e questo solo abbiamo il dovere di tramandare oggi e in futuro, affinché il significato del 25 aprile sopravviva alla morte dell’ultimo partigiano e al passare del tempo che oscura ogni cosa. Per vivere da uomini bisogna essere liberi. Per conquistare la libertà e donarla a chi non l’ha bisogna combattere e sacrificarsi. In tempo di pace non meno che in tempo di guerra, quando la minaccia alla democrazia assume forme suadenti e pericolose. L’omologazione sociale e del pensiero non ci priva della libertà fisica ma incatena la nostra mente. Essa rischia oggi di trovarsi prigioniera, mentre il corpo vaga libero per le strade della città. I democratici si guardino da tale rischio, come tutti gli italiani. Chi rifiuterà la sfida o non si mostrerà all’altezza avrà tradito il 25 aprile.
È facile immaginare cosa sarebbe accaduto se Silvio Berlusconi, padrone di Mediaset, avesse deciso d’imperio di cancellare dal palinsesto di Canale 5 l’ultima puntata del “Grande Fratello”, andata in onda pochi giorni fa, lunedì 20 aprile. I fan di questa trasmissione, non meno di 5,6 milioni a puntata, avrebbero sommerso di telefonate e messaggi i centralini e il sito Internet della rete televisiva.
Lo stesso Silvio Berlusconi ha per anni rifiutato di fare la sua comparsa durante la festa del 25 aprile. Non solo da capo dell’opposizione, e come tale rappresentante di una sola parte degli italiani. Ma anche da Presidente del Consiglio e, in quanto capo del governo, rappresentante di tutti gli italiani. Ha in questo modo negato l’importanza della festa, cancellandola fisicamente dalla sua agenda e sanzionandone la cancellazione simbolica dal calendario mentale di molti nostri connazionali. Eppure lo scandalo non ha oltrepassato le redazioni dei giornali e i circoli intellettuali di sinistra. Nel comportarsi così Berlusconi ha avuto certamente buon gioco. È come se avesse affermato: posso farlo, anzi è giusto che lo faccia, perché molti italiani la pensano come me e mi danno ragione. È difficile dargli torto. Questa festa ha perso buona parte della sua presa sulle nostre coscienze.
Una festa nazionale è per definizione una festa della nazione. La nazione è la comunità di uomini e donne uniti dalla lingua, dalla cultura, dalle tradizioni e dalle vicende storiche. Non formano passivamente la nazione, non sono iscritti ad essa d’ufficio, non basta l’atto di nascita per appartenervi. Abbiamo una nazione quando uomini e donne si riconoscono nei tanti fattori che li legano, quando formano appunto una comunità. Su tale base è facile capire perché il 25 aprile non susciti negli italiani la passione che il 14 luglio accende nei francesi. Ecco qualche importante motivo.
Primo. Il 25 aprile maturò in una parte d’Italia precisa e limitata. Nella primavera del 1945 gran parte del paese respirava già un clima nuovo e rimase completamente estraneo alle vicende che infiammavano la Pianura Padana. Secondo. Il 25 aprile è la festa della Liberazione dall’occupazione nazifascista: poiché la storia alla lunga non mente, è difficile nascondere che quella liberazione coincise con la peggiore sconfitta militare e le più grandi devastazioni che il nostro paese avesse mai subito. Non è piacevole ricordarlo. Terzo. La Resistenza ebbe il ruolo di comprimario. Affiancò con il suo sacrificio le truppe anglo-americane, senza le quali i tedeschi non sarebbero mai stati cacciati. Nessuno storico serio si azzarderebbe oggi a negare ciò. Quarto. Nella Resistenza italiana erano rappresentate, seppure in diversa misura, tutte le tendenze politiche. Cattolici, azionisti, comunisti, monarchici, liberali, socialisti, persino anarchici: tutti diedero il loro prezioso contributo. Ma nei decenni successivi questa realtà faticò a emergere e via via se ne perse la cognizione. Furono i comunisti, egemoni culturalmente, a fare della Resistenza uno dei punti forti del proprio apparato ideologico e propagandistico. Con questo effetto: che la Resistenza è diventata indigesta a moltissimi, anche tra i suoi iniziali estimatori. Quinto. Molti combatterono dall’altra parte e quella che combatterono fu una guerra civile: anche questo è ormai definito. Non potevano riconoscersi nella vittoria dei loro avversari. Sesto e più importante di tutti. Molti non combatterono affatto, né dall’una né dall’altra parte. È la famosa «zona grigia» in cui si collocò la maggioranza degli italiani, in attesa degli eventi. Superficiale era stata la loro adesione al mussolinismo di guerra, superficiale fu, dopo, la loro adesione ai nuovi miti della Repubblica. E questo ci porta ad altre considerazioni.
C’è chi nega che gli italiani formino una nazione. Perché le differenze di cultura tra le varie popolazioni d’Italia sono saldamente radicate nella storia e rendono ancora oggi un campano assai diverso da un lombardo e un piemontese agli antipodi di un siciliano. E soprattutto perché gli italiani non sono mai stati davvero, in massa, protagonisti della loro storia. Ogni volta che c’è stato bisogno di «fare l’Italia» si sono lasciati trascinare da chi riusciva a mettersi alla loro guida. Fossero gli intellettuali e i borghesi combattenti del Risorgimento, i generali e i politici desiderosi di prestigio della Prima guerra mondiale, i resistenti della Seconda guerra mondiale. Gli italiani hanno appreso che erano italiani, come lo erano diventati e cosa era l’Italia sempre attraverso una narrazione esterna. Giornali, poi televisione, partiti, scuola: molti si sono assunti il compito di questa narrazione, ingolfandola di retorica e termini assoluti. Patria, Libertà, Popolo, Re, Repubblica, Costituzione, Resistenza. Naturalmente, tutto maisucolo. Da qui anche la tripletta di feste nazionali che dovrebbero contribuire, pezzetto per pezzetto, al mosaico della nostra identità: 25 aprile Festa della Liberazione, 2 giugno Festa della Repubblica, 4 novembre Festa della Vittoria. Con la clamorosa mancanza del 20 settembre, fino al fascismo celebrato in nome dell’unità d’Italia e poi abbandonato per opportunismo. Troppe feste, che nell’insieme evidenziano la mancanza di un centro unico e condiviso attorno al quale raccogliere la nazione italiana. Oggi però, lo diciamo provocatoriamente ma con rispetto, questo centro gli italiani se lo sono trovati da soli.
Che cosa sono infatti il “Grande Fratello” e il televoto se non gli strumenti attraverso i quali, settimana dopo settimana, gli italiani modellano e rimodellano l’identità nazionale, creano e ricreano l’italiano tipo, promuovendo e bocciando, ascoltando e giudicando, approvando e litigando? Meglio essere prudenti nel giudizio. Forse si tratta di illusione, forse è tutta finzione manovrata dal network, forse è una caricatura di scelta partecipata. Ma forse no. Forse gli italiani che giocano a tutto questo sono consapevoli dei limiti dell’operazione e vogliono egualmente giocare. Conta di più la voglia di essere protagonisti, in una storia minima, la storia del “Grande Fratello”, ma storia loro, da loro influenzata e condotta. Un ruolo che negli ultimi secoli gli italiani non hanno mai voluto o potuto conquistarsi. Ed ecco che si profila una nuova sfida. Nel futuro prossimo cosa peserà di più nella formazione della nostra identità nazionale? Il “Grande Fratello” o il 25 aprile?
Piero Calamandrei scrisse poco dopo la fine della guerra, a proposito della Resistenza: «Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini». Questo solo conta e questo solo abbiamo il dovere di tramandare oggi e in futuro, affinché il significato del 25 aprile sopravviva alla morte dell’ultimo partigiano e al passare del tempo che oscura ogni cosa. Per vivere da uomini bisogna essere liberi. Per conquistare la libertà e donarla a chi non l’ha bisogna combattere e sacrificarsi. In tempo di pace non meno che in tempo di guerra, quando la minaccia alla democrazia assume forme suadenti e pericolose. L’omologazione sociale e del pensiero non ci priva della libertà fisica ma incatena la nostra mente. Essa rischia oggi di trovarsi prigioniera, mentre il corpo vaga libero per le strade della città. I democratici si guardino da tale rischio, come tutti gli italiani. Chi rifiuterà la sfida o non si mostrerà all’altezza avrà tradito il 25 aprile.
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politica dalla parte delle radici
martedì 6 aprile 2010
Ancora Pasqua, ancora in mezzo al guado
Ho trascorso il giorno di Pasqua in Francia con la mia famiglia e con una famiglia di amici. Siamo andati a Colmar, la graziosa cittadina dell'Alsazia che ospita una grandiosa opera d'arte: la pala d'altare dipinta nei primi anni del Cinquecento da Mathias Grunewald.
E' la terza volta che attraverso le Alpi per ammirare questi dipinti e anche questa volta sono rimasto colpito dall'intensa fede dell'artista. Essa è talmente visibile che trasforma una qualsiasi visita ad un piccolo museo in una esperienza spirituale.
I visitatori entrano nella grande sala. Fanno silenzio, si siedono, ascoltano le guide che li accompagnano o premono all'orecchio l'auricolare dell'audioguida fornita all'ingresso. Poi, invece che allontanarsi - come succede di solito - soddisfatti di aver compiuto uno dei doveri del turista medio, restano lì, fermi. Continuano ad osservare. Cercano di rendersi conto se è vero ciò che stanno ammirando: se il miracolo è cosa reale. E in questo caso se possono cominciare a sognare un mondo diverso, dove non ha senso la sete di avere, potere e apparire che ci sta mangiando tutti.
Li osservi, come io ho fatto per lunghi momenti, e capisci che molti di loro non sanno dare un nome alla sconcertante bellezza cui assistono. Nei grandi dipinti che ornavano l'altare del monastero-ospedale di Isenheim è narrato tutto il mito cristiano: annunciazione a Maria, infanzia di Gesù, morte in croce, risurrezione, vita dei santi cristiani e tentazioni che ancora li tormentano.
Stupore e interesse anche nei miei bambini (sette e undici anni) e nei tre dei miei amici. Di solito è difficile che sopportino la visita dei musei che sembrano tanto interessare gli adulti. Ma questa volta sono rimasti lì anche loro. Non sapevano perché, ma capivano che era importante essere venuti fino a lì, ad assistere a quella cosa inusuale, eccezionale, cupa e luminosa, colorata e grande: una narrazione dai significati inesauribili e arcani.
A mio figlio è piaciuto il lungo lenzuolo che il risorto lascia dietro di sé salendo al cielo: ha colori freddi il lembo che è rimasto nella tomba, e poi sempre più caldi, fino all'incandescenza del volto sereno del Cristo, sereno e trionfante.
A mia figlia sono piaciuti i mostri, frutto di una fantasia degna dei pokemon, che tormentano nel deserto il povero sant'Antonio, vogliono evidentemente spaventarlo e, non riuscendoci, arrivano persino a tirargli i capelli.
Apprezzati anche gli angeli cantori, un corvo che miracolosamente porta un pane nel deserto, un asceta vestito solo di foglie, una madonna nello stesso tempo sapiente e spaventata per l'ingresso in casa sua di un angelo in un turbine di vento.
Mi sono commosso, come mi accade sempre.
Il mito cristiano - come altri, antichissimi e così profondamente umani - è bellissimo. Come spero, con tutto me stesso, che sia anche vero!
Grunewald ne aveva la certezza. Beata la vita del messaggero di un lieto annuncio: la sua, almeno la sua, fu un'esistenza piena di significato e valore.
E' il mio augurio di Pasqua a tutti i nostri lettori.
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