La morte di mia madre, avvenuta il 4 gennaio, mi colpisce per tanti motivi. Eccone uno molto particolare.
Mia madre nasce nel 1935 e cessa di vivere a settantacinque anni. Di ottima famiglia, cresce insieme alle tre sorelle sotto l’ala protettrice dei genitori. Terminate le magistrali smette di studiare, preparandosi al matrimonio. E a ventisei anni convola a nozze con mio padre. In poche parole, passa direttamente dalla potestà paterna a quella maritale, che rispetta per il mezzo secolo successivo. Non sperimenta mai un giorno di completa indipendenza. Non lavora mai nemmeno un’ora. A tutto provvede mio padre, e a lei va bene così. Di carattere autoritario, in casa è abituata a farsi obbedire. All’esterno perde l’orientamento e per qualsiasi bisogno, fosse pure la carta più semplice, si affida al marito. All’occorrenza, sa cavarsela da sola. Tra il ’69 e il ’70, mio padre passa un anno in sanatorio per la tubercolosi e lei manda avanti la famiglia con bravura. Ma è uno stato eccezionale, non la norma. La norma è questa: lei si occupa della casa, lui del sostentamento coniugale e filiale.
Molte, se non quasi tutte le donne della generazione di mia madre, hanno vissuto in questa maniera. Specie nelle terre dalle quali vengo e nel meridione d’Italia. L’emancipazione della figura femminile è maturata dopo, per chi aveva meno anni. Per la donna che nasce nel 1935 vivere sotto tutela è fatto ordinario.
Più della globalizzazione, più dei voli low cost e del turismo di massa. Più dell’i-Pod e dei netbook, della televisione satellitare e dei crack finanziari planetari. Più del mio divorzio e della mia mobilità lavorativa. Più di tutto questo, la morte di mia madre segna per me la fine del vecchio mondo e il passaggio al nuovo. Con lei vedo sparire l’ultimo pezzo della società che mi ha generato, e che ormai non c’è più.
Mia madre ha mal tollerato il mondo e le sue evoluzioni negli ultimi venti anni. Non capiva perché nessuno volesse più obbedirle. E perché nessuno si attenesse più alle poche e salde regole che avevano guidato la sua esistenza. Questo disagio, questa cattiva sopportazione confermano la voce popolare. È difficile cavalcare l’onda dei propri tempi. Ma ancora più difficile, se non impossibile, è entrare in sintonia con chi ci precede e con chi viene dopo di noi. Il tempo concessoci per seminare del buono è breve. Non buttiamolo al vento.
lunedì 25 gennaio 2010
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