L’evolversi della situazione iraniana mi offre lo spunto per un’interessante considerazione d’ambito religioso-sociale.
Pochi hanno notato un fatto. I manifestanti che riempiono le strade di Teheran e delle altre città iraniane per protestare contro il potere di Ahmadinejad non gridano solo slogan politici. Non urlano cioè solo «Morte al dittatore!». Tra le loro parole d’ordine ci sono anche invocazioni alla giustizia tratte direttamente dal Corano. Chi scende in piazza si fa forte del testo sacro dell’Islam per opporsi a una pratica di governo oppressiva e palesemente contraria al volere di Dio, che ordina all’uomo il bene, non il male. Gli ayatollah, sorretti dal popolo, hanno trent’anni fa conquistato il potere politico in Iran. Gli ayatollah, sconfessati dal popolo, rischiano oggi di perdere quello stesso potere. Il discorso religioso rimane in primo piano e protagonista del discorso religioso rimane il popolo.
Tutto ciò deriva da una caratteristica precisa della religione islamica. Nell’Islam, ogni fedele è sacerdote a se stesso. Non c’è un clero - anche se gli sciiti fanno parzialmente eccezione -, non c’è una gerarchia verticistica e centralizzata, non c’è un papa che detti la linea ex cathedra. Il buon musulmano legge il Corano e ne applica gli insegnamenti, interpretandone la parola per la sua stessa vita. Da qui alla strada il passo è breve: ecco cosa permette al musulmano di Teheran di contestare legittimamente la guida politico-religiosa del paese.
Sappiamo che la tradizione cattolica è molto diversa. I nostri pastori hanno gestito in proprio e gelosamente custodito per quasi duemila anni il ministero della Parola di Dio. E i tentativi più recenti - di stampo conciliare - di allargare questo ministero e renderlo universale non hanno attecchito. O non hanno ancora attecchito a sufficienza. I cattolici non leggono a casa loro i Vangeli e aspettano passivamente che sia il sacerdote, la domenica, in chiesa, a spiegargli cosa Gesù desidera dai suoi amici. Sulle conseguenze politiche e culturali di questo fatto si sono spesi fiumi d’inchiostro. Io ne metto in evidenza una, minima e vicina a noi. I cattolici lombardi non scendono in strada per contestare l’uso distorto che dell’insegnamento cristiano fa la Lega. E tanto meno per opporsi al matrimonio d’interesse tra la Lega stessa e i politici d’estrazione dichiaratamente confessionale che guidano oggi la regione. A quanto pare, se esercitano un discernimento personale sul Vangelo, lo esercitano privatamente. E si estraniano o rifiutano di esercitarlo su un piano pubblico e collettivo. Apparendo così del tutto incapaci di reclamare apertamente una retta etica di governo cristiana.
Non condivido la confusione tra politica e religione, tipica dell’Islam e perdurante oggi a millecinquecento anni dalla missione di Maometto. Ma non tutto ciò che viene da quella fede è cattivo.
mercoledì 30 dicembre 2009
domenica 27 dicembre 2009
Santità e storia: una distinzione per Pio XII beato
Papa Benedetto XVI firma i decreti sulle virtù eroiche di Giovanni Paolo II e Pio XII e così permette che si passi alla fase successiva del processo di beatificazione per entrambi. Per quanto riguarda il suo immediato predecessore la cosa non solleva alcun dubbio. La commozione popolare che ha accompagnato i funerali del papa polacco è rimasta nella memoria di tutti e il consenso, per esempio, sull'importanza del suo impegno per la pace è unanime: fece il possibile per una transizione pacifica alla democrazia nell'Europa comunista, si oppose apertamente alla guerra contro l'Iraq (e per questo fu deriso), dialogò con l'Islam e pregò pubblicamente con rappresentanti di questa religione, definì gli ebrei "fratelli maggiori"...
La sempre più probabile beatificazione di Pio XII solleva, invece, riserve importanti. Il papa della Seconda guerra mondiale ebbe certamente meriti pastorali e dovette affrontare uno dei peggiori momenti della storia dell'Europa e del mondo. Le responsabilità che dovette assumersi furono enormi e per non commettere errori di valutazione avrebbe dovuto avere una capacità di giudizio ben più che eroica: direi piuttosto sovrumana.
E infatti, accanto al silenzio di grandi uomini politici inglesi e americani sull'olocausto, per molti pare quasi accertata un'assenza o una colpevole debolezza di intervento di Pio XII contro le persecuzioni e lo sterminio degli ebrei. Dico "quasi" perché il Vaticano pone ancora oggi - si dice "per motivi tecnici" - il divieto a consultare gli archivi che riguardano il periodo più contestato.
La questione è complessa e il giudizio, come è giusto quando si vuole compiere un'analisi storica onesta, deve essere molto prudente e il più possibile fondato.
Ma ad attirare l'attenzione in questi giorni non è la discussione intorno a Pio XII, ancora aperta, ma la distinzione messa in campo dal portavoce vaticano per giustificare l'atto di Benedetto XVI: la proclamazione delle virtù cristiane eroiche di Pio XII non significa che si affermi la totale correttezza di tutti gli atti storici di quel papa né che si concluda la ricerca sui loro effetti.
Qui sorge un dubbio. Il processo di beatificazione di un membro della Chiesa si basa su tre elementi:
1. la fama di santità della persona presso il popolo di Dio (quella, per esempio, sostenuta in modo evidente dalla gente in piazza san Pietro il giorno dei funerali di Giovanni Paolo II);
2. la testimonianza che lo stesso candidato offre di se stesso nel momento in cui un'accurata ricostruzione storica - con lettura di ogni possibile testo, documento, pubblicazione e con la raccolta di testimonianze dirette - permette di scrivere la sua biografia; in questa fase, parole e opere del personaggio parlano per lui;
3. il cosiddetto "voto di Dio", cioè un miracolo ottenuto da un credente invocando proprio il nome dell'uomo o della donna cui si attribuisce la facoltà di intercedere presso Dio per ottenere grazie straordinarie.
Il dubbio riguarda il secondo elemento. Se per stessa ammissione del Vaticano la ricerca storica sull'operato di Pio XII - un credente, ma in particolare un papa - è ancora aperta, com'è possibile, nel frattempo, dichiarare l'eroicità delle sue virtù? Infatti, tra quelle di un papa, e non di un semplice credente, ci sarà anche quella di guidare santamente il suo gregge e di testimoniare il vangelo di fronte al mondo con coerenza, coraggio, saggezza e... prudenza.
Ora: com'è possibile, nei limiti del giudizio umano, stabilire l'eroicità e la straordinarietà delle virtù di chiunque prima di aver completato l'esame di tutte le testimonianze disponibili?
Il processo di beatificazione non serve a esaltare a ogni costo il ruolo della Chiesa e la giustezza della sua predicazione: a questo concorre la fede quotidiana di milioni di fedeli che, come possono, danno buona testimonianza della loro fede, speranza e carità.
Un processo di beatificazione serve a mostrare che, grazie alla fede, è stato possibile vivere una vita che aveva di mira non solo il raggiungimento del paradiso, ma anche la trasformazione del mondo in un luogo più umano, più giusto, più vivibile. Per questo il processo di beatificazione è una procedura dove la ricostruzione storica ha un ruolo decisivo. Altrimenti varrebbe, nel caso, per Pio XII, quanto vale per ogni credente: ci "limiteremmo" ad affidarlo alla misericordia di Dio per gli errori che potrebbe aver commesso, anche i più gravi.
Forse la tentazione di difendere la Chiesa da ogni dubbio storico sta pesando sulla serenità del giudizio storico? Per fugare questo triste sospetto, bisognerebbe, credo, proclamare l'eroicità del personaggio solo dopo aver fatto il possibile per sostenerla fino in fondo.
Da cristiano ho la massima misericordia per le debolezze umane, anche per quelle di un papa in mezzo a una guerra (compito terribile). Ma da cristiano e da uomo dotato di intelligenza non avrei nessuna comprensione per un tentativo di apologetica così mal combinato.
martedì 22 dicembre 2009
Auguri di buon Natale
25 dicembre, Natale: un'oasi nel bel mezzo della stagione più attiva dell'anno. Lavoro, scuola, affari si interrompono nel corso di una normale settimana. Segue il 26, giorno di santo Stefano, e quest'anno, il 27, la domenica. Come sempre, molti ne approfitteranno per sfruttare qualche giorno di ferie arretrato. Altri, in tempo di crisi, saranno obbligati a farlo dalle aziende che chiudono in attesa di ordini.
E così il giorno di Natale diventa "le feste di Natale", o più semplicemente "le feste". E tutti ci diciamo, gentilmente, "buone feste".
Ma io, per come lo sento, voglio fare proprio un augurio di buon Natale.
In due parti.
In primo luogo auguro a tutti di riscoprire, almeno in una brevissima riflessione, il senso del Natale cristiano. Non per onorare una nobile e vecchia tradizione o per difendere in qualche modo le nostre radici. Il Natale cristiano merita considerazione perché è una idea forte, curiosa, provocante.
Il mito cristiano racconta che Dio, l'onnipotente, a un certo punto ha voluto stare in mezzo agli uomini (e questa è una cosa) come un uomo (e questa è una seconda cosa). Dunque per i cristiani il destino dell'uomo e il destino di Dio si intrecciano e non si lasciano distinguere più. Il successo dell'uomo è il successo di Dio e viceversa. E tutto ciò che si può conoscere di lui dovrebbe diventare visibile in un uomo e, attraverso questo, in tutti gli uomini.
Un'idea interessante, no?
Il secondo augurio deriva proprio da questa idea. Auguro a tutti, per l'anno prossimo, di tornare a farsi domande religiose. Perché sono domande di uomini vivi. La religione riguarda la vita, per questo è triste quando qualcuno insegna che essa è l'impegno per cui bisogna morire (motivo per cui milioni di persone la evitano e sensatamente la detestano). Figuriamoci quando si afferma che sarebbe la cosa per cui bisogna uccidere!
La domanda religiosa riguarda la ricerca della vita: ci si interroga sul suo senso, sulle sue prospettive, su ciò che l'arricchisce e le dà gusto, su ciò che la consola, la rafforza e la difende. Ci si interroga anche a proposito di ciò che la inquieta. C'è una domanda religiosa nella nascita, nell'innamoramento, nell'arte, nella malattia, nel dolore, nell'amore, nella giustizia e nella lotta contro il male. C'è una domanda religiosa anche nel morire, e forse anche nella morte. Senza domanda religiosa - una ricerca che vuole andare a fondo di ogni cosa - finiamo per prendere ogni aspetto dell'esistenza come se tutto avesse la stessa importanza e lo stesso sapore: una condizione davvero deprimente. La ricerca religiosa cerca invece di stabilire delle gerarchie tra le cose di cui abbiamo esperienza e conoscenza e così ce ne rivela in pieno il gusto e il valore.
Nel vangelo di Giovanni si attribuiscono a Gesù queste parole: "Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza".
Auguro a tutti molta vita. Cos'altro dovrei fare a Natale?
sabato 19 dicembre 2009
Il piccolo Thomas e la Festa delle Luci
Alla porta di un condominio vicino al mio è comparso un paio di giorni fa un cartello festoso. Annuncia la nascita del piccolo Thomas. Il piccolo Thomas ha genitori italianissimi, che hanno scelto per lui un nome inglese. Certo è un nome cristiano, ma so di sicuro che questo pensiero non ha attraversato le menti dei due genitori. Molto di più hanno contato la loro esterofilia e l’esoticità del nome stesso.
Questo fatto minimo mi riporta alla mente il maestro di Cremona che ha deciso di sostituire la celebrazione del Natale con quella di una più generica - e, secondo lui, accogliente - Festa delle Luci. Di ieri è la notizia che l’insegnante ha ottenuto il permesso definitivo del suo dirigente scolastico: la Festa delle Luci a Cremona effettivamente si farà. Di conseguenza molti, sulla stampa e nel mondo politico, hanno iscritto il maestro nel libro nero dei responsabili dell’inarrestabile annacquamento delle tradizioni nazionali. E segnatamente, delle nostre tradizioni cristiane.
Io non sto dalla parte di chi prevede la diluizione, il declino e addirittura la perdita della nostra identità. Sto dalla parte di chi ritiene la contaminazione culturale inevitabile e creativa. Quel che mi interessa segnalare è però altro: a mio parere, l’episodio di Cremona non è causa ma effetto.
È la nascita negli ultimi venticinque anni di tanti piccoli Thomas italiani - e correlative Jessica e Samantha - ad aver generato l’atmosfera che rende proponibile e praticabile una Festa delle Luci. Siamo noi italiani a desiderare, sperimentare, abbracciare per primi quel che viene da fuori. Ritenendolo spesso migliore di ciò che già abbiamo a disposizione. Vedi la Notte di Halloween, la cui celebrazione si diffonde in Italia e nell’intero Occidente a macchia d’olio. Il fenomeno parte da lontano ed ha poco a che vedere - come invece molti sostengono - con l’aumento della popolazione straniera in Italia.
Se fossi nei panni degli avversari del maestro cremonese cambierei strategia. Prendersela con le tradizioni “altre” è dannoso, perché genera rancore, e inutile, perché il divieto non elimina il desiderio o il bisogno di nuovo. Lasciamo che tutti festeggino quel che vogliono. E lavoriamo sulla nostra gente perché riscopra il significato e il sapore delle tradizioni indigene più antiche e belle. Lo dico da sostenitore della contaminazione culturale. Solo partendo da ciò che è già nostro possiamo assorbire ciò che è diverso senza farcene sopraffare. E solo per questa strada il piccolo Thomas diverrà un individuo completo, sicuro della propria identità, capace di convivere con la globalizzazione.
Questo fatto minimo mi riporta alla mente il maestro di Cremona che ha deciso di sostituire la celebrazione del Natale con quella di una più generica - e, secondo lui, accogliente - Festa delle Luci. Di ieri è la notizia che l’insegnante ha ottenuto il permesso definitivo del suo dirigente scolastico: la Festa delle Luci a Cremona effettivamente si farà. Di conseguenza molti, sulla stampa e nel mondo politico, hanno iscritto il maestro nel libro nero dei responsabili dell’inarrestabile annacquamento delle tradizioni nazionali. E segnatamente, delle nostre tradizioni cristiane.
Io non sto dalla parte di chi prevede la diluizione, il declino e addirittura la perdita della nostra identità. Sto dalla parte di chi ritiene la contaminazione culturale inevitabile e creativa. Quel che mi interessa segnalare è però altro: a mio parere, l’episodio di Cremona non è causa ma effetto.
È la nascita negli ultimi venticinque anni di tanti piccoli Thomas italiani - e correlative Jessica e Samantha - ad aver generato l’atmosfera che rende proponibile e praticabile una Festa delle Luci. Siamo noi italiani a desiderare, sperimentare, abbracciare per primi quel che viene da fuori. Ritenendolo spesso migliore di ciò che già abbiamo a disposizione. Vedi la Notte di Halloween, la cui celebrazione si diffonde in Italia e nell’intero Occidente a macchia d’olio. Il fenomeno parte da lontano ed ha poco a che vedere - come invece molti sostengono - con l’aumento della popolazione straniera in Italia.
Se fossi nei panni degli avversari del maestro cremonese cambierei strategia. Prendersela con le tradizioni “altre” è dannoso, perché genera rancore, e inutile, perché il divieto non elimina il desiderio o il bisogno di nuovo. Lasciamo che tutti festeggino quel che vogliono. E lavoriamo sulla nostra gente perché riscopra il significato e il sapore delle tradizioni indigene più antiche e belle. Lo dico da sostenitore della contaminazione culturale. Solo partendo da ciò che è già nostro possiamo assorbire ciò che è diverso senza farcene sopraffare. E solo per questa strada il piccolo Thomas diverrà un individuo completo, sicuro della propria identità, capace di convivere con la globalizzazione.
Quando nascondere vuol dire svelare
Mad Men, terza serie, prima puntata. Il capo degli account viene licenziato. Torna nel suo ufficio, chiude la porta e comincia a urlare. È inferocito. Inveisce e rovescia la scrivania. Non vediamo niente, ma ascoltiamo tutto dal corridoio, insieme ad altri due personaggi. Sono parole e gesti insoliti per una serie che fa della misura e del glam un criterio imprescindibile. L’autore ha inserito in sceneggiatura lo scatto d’ira del manager licenziato, ma ha deciso di non mostrarcelo. Proprio sapendo che la violenza esplicita non ha niente a che vedere con Mad Men. E in questo modo dà ancora più forza alla scena.
Paranoid Park, film del 2007 per la regia di Gus Van Sant. Il protagonista adolescente decide di lasciare la sua ragazza: lo annoia, non ci si trova bene. La affronta e le dice che è finita. Lei reagisce male: strepita e impreca, insultandolo. Noi vediamo tutto questo, ma non lo sentiamo. La macchina da presa rimane puntata sul volto della ragazza, mostrandone ogni espressione. Dalla gioia per l’incontro allo stupore per quel che le viene detto. Dall’incredulità alla rabbia. È il suo volto a parlare, perché la sua voce scompare. La musica è il sonoro della scena. Van Sant ha deciso che più di qualsiasi parola valgono un lampo negli occhi e una piega della labbra.
Due scelte di stile differenti ma univoche: l’autore gioca con gli elementi della rappresentazione, sottraendone uno allo spettatore. Nel primo caso lo sguardo, nel secondo l'udito.
Due scelte convergenti verso un solo obbiettivo: esaltare l’azione del personaggio e il contenuto della sceneggiatura.
Due scelte di scrittura precise e consapevoli: quando nascondere vuol dire svelare.
Paranoid Park, film del 2007 per la regia di Gus Van Sant. Il protagonista adolescente decide di lasciare la sua ragazza: lo annoia, non ci si trova bene. La affronta e le dice che è finita. Lei reagisce male: strepita e impreca, insultandolo. Noi vediamo tutto questo, ma non lo sentiamo. La macchina da presa rimane puntata sul volto della ragazza, mostrandone ogni espressione. Dalla gioia per l’incontro allo stupore per quel che le viene detto. Dall’incredulità alla rabbia. È il suo volto a parlare, perché la sua voce scompare. La musica è il sonoro della scena. Van Sant ha deciso che più di qualsiasi parola valgono un lampo negli occhi e una piega della labbra.
Due scelte di stile differenti ma univoche: l’autore gioca con gli elementi della rappresentazione, sottraendone uno allo spettatore. Nel primo caso lo sguardo, nel secondo l'udito.
Due scelte convergenti verso un solo obbiettivo: esaltare l’azione del personaggio e il contenuto della sceneggiatura.
Due scelte di scrittura precise e consapevoli: quando nascondere vuol dire svelare.
lunedì 14 dicembre 2009
Rispettare insieme i tori e la tradizione
Tra le diverse cose che mi appassionano c'è l'opera lirica. Pur vivendo nei pressi di Milano, non posso andare spesso, come vorrei, alla Scala, per motivi di costi e di tempo. Ma appena sono libero, la sera, a volte mi godo in DVD - ne ho una bella collezione - un atto della Traviata di Verdi, di Così fan tutte di Mozart, di Der Rosenkavalier di Strauss, del Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi e così via.
Di conseguenza, appena ho saputo che un canale televisivo satellitare permetteva di seguire in diretta la prima di quest'anno - la Carmen di Bizet - mi sono organizzato per registrarla e me la sono vista il giorno dopo.
Lo spettacolo mi è piaciuto.
Bene gli interpreti - solo un po' emozionata, al primo apparire sulla scena, la giovane Carmen -; ottimi come sempre l'orchestra e il coro; non male, a mio umile giudizio, e questo contro il parere espresso a fischi da parte del pubblico in teatro, la regia di una giovane italiana, anche lei esordiente: affascinante la scena dell'uscita delle sigaraie dalla fabbrica, evocativo il canto di Michaela, che spera di sposare Don José, quando appare completamente avvolta in un ampio velo bianco che assomiglia a una rete che la imprigiona...
Un dubbio, però, a proposito di regia mi è venuto. E mi è venuto prima di ascoltare - comunque stupito - i fischi di parte del pubblico. Un particolare, se volete, che mi ha disturbato. Una stonatura.
Si tratta di questo. In una scena del secondo atto compare il torero Escamillo, l'uomo di cui Carmen si innamora e che vorrebbe sostituire, come amante, al geloso Don José.
Com'è tradizione e come tutti si attendono da questo personaggio, Escamillo canta orgoglioso il suo eroismo di torero imbattuto. Nella prima della Scala lo fa camminando avanti indietro su una tavola imbandita: fiero e sprezzante.
Ed ecco la stonatura. La regista, pensando, credo, di fare cosa corretta secondo il nostro gusto attuale a proposito di certe cose, fa dispiegare, dietro il tronfio torero che sta cantando, due grandissime gigantografie. Entrambe rappresentano il muso insanguinato di un povero toro appena abbattuto in una corrida dei giorni nostri. La vittima, ancora calda di vita e, ripeto, lorda di sangue acceso, fissa il pubblico con occhioni innocenti.
Insomma: nel bel mezzo della popolarissima Carmen, la regista ha voluto lanciare un appello accorato e fortissimo... contro la barbara tradizione della corrida.
Ora, che c'entra tutto questo con Bizet? Che c'entra con lo spirito della Carmen? Ma soprattutto: abbiamo davvero così poca fiducia nel pubblico da temere che la voce fiera del torero voluto dal grande musicista francese possa far venir voglia alla gente di Milano di uscire dal teatro e correre ad ammazzare o almeno a veder ammazzare un toro innocente?
Sì, per me è stata una nota stonata. Quell'irrompere del politicamente corretto - che va benissimo: io in difesa della corrida ho pochi argomenti da spendere - in uno spettacolo che ha in sé la propria giustificazione estetica mi è sembrata una vera barbarie. Una colossale sciocchezza.
E' stato come rappresentare un sacrificio umano in un film sugli Aztechi e metterci un sottotitolo lampeggiante che dice: "Attenzione! Queste cose non si fanno!". E' stato come rappresentare la crocifissione di Gesù, sempre in un film, con sottotitolo: "Attenzione! Non ce l'abbiamo coi romani, né con gli ebrei".
Devo davvero spiegare perché quelle foto di tori ammazzati mi sono sembrate fuori luogo?
C'è qualcun altro a cui sono sembrate il segno di una cultura, la nostra, che non sa interpretare il passato per quello che è e nello stesso tempo mantenersi serenamente convinta delle sue idee e della propria sensibilità?
sabato 5 dicembre 2009
I buoni motivi per cui lascio il PD
Dopo un’esperienza molto intensa durata quasi un biennio, lascio il Circolo di Saronno del Partito Democratico.
Il motivo, in estrema sintesi, è questo. Il discorso del Lingotto, pronunciato da Veltroni alla nascita del PD, ha ormai più di due anni. A quel discorso non sono seguiti i fatti. Del «partito nuovo» non c’è traccia. Questo è un partito uguale agli altri. E il tempo in cui avremmo potuto farne qualcosa di veramente nuovo è passato. In poche parole, abbiamo perso il treno. Ecco alcuni esempi di ciò che intendo.
Il governatore della Puglia azzoppato dalle inchieste giudiziarie sui suoi più stretti collaboratori. Il governatore del Lazio costretto alle dimissioni per aver mentito sulle sue frequentazioni sessuali private. Il governatore della Campania letteralmente affogato nell’immondezza. E molte indagini in corso a carico degli amministratori locali pd per reati commessi nel pieno delle loro funzioni. Le parole pronunciate a questo riguardo da Bersani neoeletto durante l’Assemblea Nazionale del 7 novembre mi sono sembrate estremamente deboli. La «questione morale» investe il PD come ogni altro partito e non si fa abbastanza per risolverla. Non c’è traccia del rigore e della tensione civili promessi quando il partito nacque.
Rutelli, fondatore della Margherita, ha lasciato il PD. Insieme a lui, altre personalità di centro. Non molte, per la verità. Ma tra esse c’è qualcuno che pensa e ha la mia stima, come Cacciari, e qualcun altro che ha saputo dimostrare concretamente grandi capacità politiche, come Dellai. Costoro si posizioneranno tra PD e UDC e cercheranno in ogni modo di guadagnare spazio alle loro idee, spingendo inevitabilmente i democratici a sinistra. Il PD doveva essere il partito del centrosinistra, senza trattino, ma nella migliore delle ipotesi diverrà il maggiore azionista del centro-sinistra, col trattino, impersonandone appunto l’anima di sinistra. Anche in questo caso siamo lontanissimi dal progetto lanciato al Lingotto da Veltroni. Mancano la sostanza e ormai persino l’aspirazione a incarnare quel riformismo progressista che in Italia non ha mai avuto grande seguito e che doveva costituire il cuore maturo del Partito Democratico.
Non mi piacciono l’assoluta mancanza di carisma dei leader, la presenza a capo del partito delle solite vecchie facce ex comuniste o ex democristiane e l’incertezza della linea politica. Mi fa specie che Fini, oppositore di Berlusconi, occupi il centro della scena politica e noi, oppositori di Berlusconi, ci troviamo perennemente ai margini di quella scena. Mi dà fastidio che a Fini si attribuisca un progetto di destra moderna ed europea, mentre il PD, del suo progetto, non riesce a comunicare l’essenza. Mi delude la perenne conflittualità interna. In queste ore un pezzo del PD sfila a Roma con Di Pietro, un altro pezzo segue, magari non convinto, la regola bersaniana. Non mi colpisce la divergenza di vedute, quanto l’uso come arma di questa divergenza. L’intervista rilasciata da Veltroni al Corriere della Sera un paio di settimane fa non lascia presagire in proposito niente di nuovo: preannunciava il suo ritorno in grande stile al partito e comunicava, tra le righe, la ripresa della guerra per bande democratica. Molto di tutto ciò deriva, a mio modestissimo parere, da un difetto profondo d’identità. Il PD non sa ancora cosa è e cosa vuole. Sembra banale dirlo, ma non se ne è discusso abbastanza. Manca la visione del mondo. Mancano due o tre parole d’ordine semplici, chiare e condivise. E di conseguenza manca la cognizione dei valori, delle parti sociali e degli interessi che si desidera rappresentare. La Costituzione è diventata un amuleto da difendere a ogni costo. Per il resto, molta nebbia e poca, pochissima chiarezza. Nessuno può dire a chi appartiene oggi il Partito Democratico.
Come dicevano i latini e come dice Snoopy: Nemo ad impossibilia tenetur. Non c'è alcun motivo per perseverare nella caccia a un obbiettivo irraggiungibile. Molto più sensato è misurare le proprie forze e lavorare su un obbiettivo realistico. Il mio terreno di battaglia è l'editoria. E ai libri torno.
Il motivo, in estrema sintesi, è questo. Il discorso del Lingotto, pronunciato da Veltroni alla nascita del PD, ha ormai più di due anni. A quel discorso non sono seguiti i fatti. Del «partito nuovo» non c’è traccia. Questo è un partito uguale agli altri. E il tempo in cui avremmo potuto farne qualcosa di veramente nuovo è passato. In poche parole, abbiamo perso il treno. Ecco alcuni esempi di ciò che intendo.
Il governatore della Puglia azzoppato dalle inchieste giudiziarie sui suoi più stretti collaboratori. Il governatore del Lazio costretto alle dimissioni per aver mentito sulle sue frequentazioni sessuali private. Il governatore della Campania letteralmente affogato nell’immondezza. E molte indagini in corso a carico degli amministratori locali pd per reati commessi nel pieno delle loro funzioni. Le parole pronunciate a questo riguardo da Bersani neoeletto durante l’Assemblea Nazionale del 7 novembre mi sono sembrate estremamente deboli. La «questione morale» investe il PD come ogni altro partito e non si fa abbastanza per risolverla. Non c’è traccia del rigore e della tensione civili promessi quando il partito nacque.
Rutelli, fondatore della Margherita, ha lasciato il PD. Insieme a lui, altre personalità di centro. Non molte, per la verità. Ma tra esse c’è qualcuno che pensa e ha la mia stima, come Cacciari, e qualcun altro che ha saputo dimostrare concretamente grandi capacità politiche, come Dellai. Costoro si posizioneranno tra PD e UDC e cercheranno in ogni modo di guadagnare spazio alle loro idee, spingendo inevitabilmente i democratici a sinistra. Il PD doveva essere il partito del centrosinistra, senza trattino, ma nella migliore delle ipotesi diverrà il maggiore azionista del centro-sinistra, col trattino, impersonandone appunto l’anima di sinistra. Anche in questo caso siamo lontanissimi dal progetto lanciato al Lingotto da Veltroni. Mancano la sostanza e ormai persino l’aspirazione a incarnare quel riformismo progressista che in Italia non ha mai avuto grande seguito e che doveva costituire il cuore maturo del Partito Democratico.
Non mi piacciono l’assoluta mancanza di carisma dei leader, la presenza a capo del partito delle solite vecchie facce ex comuniste o ex democristiane e l’incertezza della linea politica. Mi fa specie che Fini, oppositore di Berlusconi, occupi il centro della scena politica e noi, oppositori di Berlusconi, ci troviamo perennemente ai margini di quella scena. Mi dà fastidio che a Fini si attribuisca un progetto di destra moderna ed europea, mentre il PD, del suo progetto, non riesce a comunicare l’essenza. Mi delude la perenne conflittualità interna. In queste ore un pezzo del PD sfila a Roma con Di Pietro, un altro pezzo segue, magari non convinto, la regola bersaniana. Non mi colpisce la divergenza di vedute, quanto l’uso come arma di questa divergenza. L’intervista rilasciata da Veltroni al Corriere della Sera un paio di settimane fa non lascia presagire in proposito niente di nuovo: preannunciava il suo ritorno in grande stile al partito e comunicava, tra le righe, la ripresa della guerra per bande democratica. Molto di tutto ciò deriva, a mio modestissimo parere, da un difetto profondo d’identità. Il PD non sa ancora cosa è e cosa vuole. Sembra banale dirlo, ma non se ne è discusso abbastanza. Manca la visione del mondo. Mancano due o tre parole d’ordine semplici, chiare e condivise. E di conseguenza manca la cognizione dei valori, delle parti sociali e degli interessi che si desidera rappresentare. La Costituzione è diventata un amuleto da difendere a ogni costo. Per il resto, molta nebbia e poca, pochissima chiarezza. Nessuno può dire a chi appartiene oggi il Partito Democratico.
Come dicevano i latini e come dice Snoopy: Nemo ad impossibilia tenetur. Non c'è alcun motivo per perseverare nella caccia a un obbiettivo irraggiungibile. Molto più sensato è misurare le proprie forze e lavorare su un obbiettivo realistico. Il mio terreno di battaglia è l'editoria. E ai libri torno.
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